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Lucas prima e dopo Star Wars

THX 1138, American Graffiti, le produzioni

di Roberto Lasagna


     George Lucas cineasta del futuro. Nel corso degli ultimi venti anni ci siamo spesso imbattuti in un'affermazione del genere. I motivi, evidentemente, sono fondati. La saga di Guerre Stellari non ha soltanto conquistato i botteghini di tutto il mondo, ma ha prodotto interpretazioni e ripensamenti del genere fantastico, come, d'altro canto, di un modo di intendere lo spettacolo cinematografico negli anni Settanta della cosiddetta Nuova Hollywood.
     In effetti, la saga di Guerre Stellari non è soltanto una fuga dal reale, una vertigine in nuovi spazi del possibile e del visibile. La prova è forse da ricercare negli altri lavori cinematografici di Lucas, nelle sue poche regie e nelle produzioni, cioè in quei tasselli cinematografici che da soli appaiono così densi di significati e ammantati di un'idea di cinema come campo di sperimentazione per nuovi scenari della visione. Peraltro, quando esce nelle sale il primo film del giovane regista, non sono in molti a ritenerlo soltanto un divertissement per la "generazione popcorn" come sarebbe successo invece per i successivi film del nostro; nello stesso tempo, la figura del cineasta Lucas appare legata, almeno agli inizi, al destino del regista-produttore Francis Ford Coppola e di una concezione egemonica del rapporto con il pubblico. In seguito Lucas erediterà i toni sontuosi e spettacolari di Coppola privilegiando tuttavia la ricetta estetica del padre spirituale dei nuovi cineasti americani, Roger Corman. Quindi, la strada percorsa da Lucas prenderà una direzione che lo porterà presto alla definizione di un modo decisamente personale di intendere lo spettacolo cinematografico. Nel tentativo di rivendicare l'importanza dell'immaginazione, non per questo diffidando completamente del realismo, Lucas intende proclamarsi fin dal primo lungometraggio, THX 1138, realizzato nel 1970, quale novello Georges Méliès del cinema statunitense. Un Méliès per le masse americane avvinto da una serie di presupposti ben definiti. Astrattismo, simbolismo, amore per i generi e tensione formale all'ennesima potenza fanno di questo esordio un atto di coerenza per la nascente casa di produzione Zoetrope. Quasi un manifesto di modernismo che favorisce la molteplicità di letture. L'autarchia produttiva di Coppola e di Lucas, uniti nel tentativo di smarcarsi dallo strapotere delle Major, nasce comunque nel segno della mediazione con le grandi case di produzione. Infatti, come il primo film di Lucas si rivelerà un flop al botteghino, Coppola sarà costretto a correre ai ripari lavorando con la Paramount per il blockbuster Il Padrino. Grazie agli enormi proventi di quel film potrà finanziare ancora l'amico Lucas "imponendo" alla Universal la distribuzione di American Graffiti (1973). E questa volta si tratterà di un grande successo di pubblico.
     American Graffiti è uno dei film più emblematici nella ridefinizione del pubblico che corre nelle sale per gustarsi i prodotti della rinascente industria cinematografica: grande attenzione ai giovani, al loro micro-mondo che diviene simbolo di molte universalità, alle mode e ai gusti correnti; ma anche, American Graffiti, film del ripensamento generazionale, della riflessione sui piccoli-grandi temi della quotidianità, sull'importanza dell'adolescenza e sul riaffiorare dei sogni rimasti irrealizzati durante quell'importante fase dell'esistenza. La fuga da una vita sentita come frustrante è pertanto una radice comune ed autori come Lucas, Scorsese e Spielberg.
     Se il grande amico degli esordi cinematografici di Lucas è Francis Ford Coppola, più avanti, dopo l'enorme popolarità di Guerre Stellari, egli individua in Steven Spielberg il nume tutelare delle sue nuove operazioni produttive. La saga dell'esploratore Indiana Jones, di cui Lucas produce il primo e il terzo episodio scrivendo però il soggetto dell'intera trilogia e lasciando a Spielberg il compito di regista, mentre appartiene allo spirito di entrambi i cineasti, può essere considerato a pieno titolo come un progetto lucasiano: ne fanno fede la vocazione antropologica dei migliori momenti della saga, e, inoltre, la concezione stessa di serialità che si impone come una delle caratteristiche fondanti il cinema di Lucas. Più in generale, Lucas e Spielberg rilanciano il cinema d'avventura per adulti, ben oltre la vocazione "infantilista" da più parti additata in merito alla loro vocazione espressiva. In questo senso, le influenze tra produttore e regista sono senza dubbio reciproche, così come, all'inizio di carriera, Coppola avrebbe influenzato Lucas nella scelta di esprimere una tensione estetica maggiormente rigorosa e intellettualistica, mentre Lucas, a sua volta, avrebbe incoraggiato Coppola nella prosecuzione di un proprio disegno produttivo. Ad ogni modo, a dispetto della grande popolarità dei suoi più grandi successi produttivi, il "lato oscuro" di Lucas si sarebbe fatto sentire anche dopo i due film d'inizio carriera, cioè sia in Guerre Stellari, terza regia del nostro nonché l'ultima prima di un silenzio registico durato vent'anni, sia nella saga "prestata" alla regia di Steven Spielberg. Per quanto pertiene quest'ultima, le avventure dell'archeologo Jones condensano in una traiettoria di ripetizioni il modello di un cinema entusiasmante che sembra volere restituire ai quarantenni la foga di quando erano scolaretti. Dal canto suo Spielberg, nei tre film interpretati da Harrison Ford (una delle "scoperte" di Lucas), si impegna al fine di rendere lo spettacolo sempre più acrobatico, pirotecnico, come sarà anche nei momenti migliori di Jurassic Park. Sua, ad esempio, è l'attenzione per i meccanismi della suspense, suo è anche il sensazionalismo effettistico di buona parte della saga. La tensione conoscitiva verso nuovi mondi, che si modula in una vera e propria poetica dell'altrove in Incontri ravvicinati del terzo tipo e in E.T., fa capolino nella saga di Indiana Jones attraverso la raffigurazione di un personaggio, l'esploratore-archeologo, cui è nondimeno agevole riconoscere la più genuina ispirazione lucasiana.
     L'incontro con l'avventura simbolizzato attraverso la baldanza fumettistica della saga di Indiana Jones, acquisisce tuttavia un senso più sfaccettato se ricondotto alle origini cinematografiche di Lucas; quelle, propriamente, di THX 1138. A questo proposito, volendo gettare uno sguardo sul film più "sperimentale" del cineasta, conosciuto e apprezzato soprattutto dagli appassionati di cinema, ci sembra opportuno soffermarci un poco sul titolo italiano, mai come in questo caso così "profetico": L'uomo che fuggì dal futuro. Il film di Lucas è infatti la raffigurazione di un XXV secolo buio, sotterraneo, decisamente poco a misura d'uomo. Il destino degli individui appare programmato a tavolino da un sistema sociale impietoso e cibernetico, così come la riproducibilità della specie è affidata al freddo determinismo delle provette di laboratorio.
     THX 1138 è un film insolito, non soltanto per l'epoca in cui esce. È di certo più inedito e pauroso di Guerre Stellari. In esso l'avventura è una delle componenti del film, ma non la principale. Il fascino che Lucas avverte per altri mondi, sicuro riflesso della sua formazione di studioso d'antropologia, si traduce nella ricognizione di un universo futuro che sembra imparentato con il passato di totalitarismo di alcune reali situazioni storiche. Il lavoro di Lucas deve molta della sua particolarità ai referenti cinematografici cui fa riferimento, primo fra tutti il mondo sotterraneo di Metropolis. Ma la divisione in classi è qui allegorizzata attraverso una più invadente divisione tra buoni e cattivi. L'opposizione bene contro male, che sarà centrate in Guerre Stellari, è esplicitata in THX 1138 nell'esperienza formale di un racconto post-espressionista, che attualizza in parte le istanze politiche presenti nella narrativa di Orwell e Huxley. Ci troviamo in fondo nei pressi di in un cinema altamente simbolico nel quale si riattiva il terrore per la figura del "grande fratello", simbolizzata questa volta dall'invisibile "Controllore Supremo".
     L'universo concentrazionario di THX 1138 sembra essere il mondo ideale per gli adepti di Darth Vader, il cavaliere Jedi al servizio del lato oscuro della "Forza" in Guerre Stellari. È un sotto-mondo totalitario in cui il "Controllore supremo" resta sconosciuto ai più, mentre al suo servizio è predisposta una rete di controllori e osservatori, secondo una rigida scala gerarchica difesa alla base da una potente squadra di robopoliziotti, completamente meccanici, agghindati con divise nere ed elmetti bianchi, i quali, coadiuvati da temibili sbarre elettriche, assicurano il mantenimento dell'ordine attraverso punizioni corporali e soluzioni definitive.
     Il futuro secondo Lucas è già pienamente raffigurato in THX 1138. Il titolo americano del film sta a significare il codice con cui è denominato il personaggio del film (Robert Duvall, in uno dei primi ruoli da protagonista); si tratta di un numero di serie tra i tanti che compongono quel che resta dell'umanità. Un'umanità sotterranea, igienizzata, stordita da onnipresenti altoparlanti che emettono di continuo slogan rassicuranti, secondo un training di controllo e stordimento della psiche. La vita è all'insegna dell'artificialità. Il cibo è sintetico. lì lavoro avviene in centri supermeccanizzati ed è finalizzato allo scopo di produrre nuovi soggetti meccanici. Il sesso è bandito dal sistema, mentre qualche volta si scopre tra gli individui, tutti rasati e vestiti di camici bianchi, la sopravvivenza di qualcuno nato non in provetta, ma attraverso un rapporto sessuale considerato "animalesco" e geneticamente riprovevole. Proprio costoro il sistema perseguita più di altri, come anche chi sembri "cedere" alle tentazioni della carne. I "nati-naturalmente" vengono controllati con assiduità, per evitare il rischio che contagino gli altri. Ed è quanto succede a LUH 3417 (Maggie McOmie), che si mostra irrispettosa delle leggi poiché butta nel water i sedativi e cerca di sedurre THX, un "operatore" addetto al montaggio dei robot. Nel futuro di Lucas il crimine più sconcertante riguarda dunque la carica libertaria che l'eros porta inevitabilmente con sé. Si tratta di una tematica fondamentale in un film come THX 1138. La macrostruttura concentrazionaria può mantenere la sua coesione laddove eserciti il suo controllo sul lato meno addomesticabile della natura umana: gli istinti e la carica trasgressiva di Eros.
     In questo senso il film di Lucas anticipa, con la sua gelida lucidità, la resa espressiva di alcune tematiche che ritorneranno in altri film sul futuro realizzati durante gli anni Settanta, da 2022: i sopravvissuti a Arancia meccanica: la censura degli istinti, conseguenza di una struttura sociale autodistruttiva e cannibalica, rappresenta la chiave d'interpretazione di un avvenire letto nella prospettiva di un'Utopia negativa e cibernetica. Ma Lucas conduce la sua dialettica facendo emergere, in extremis, la speranza.
     Come sarà nella trilogia di Guerre Stellari, il bene combatterà contro il male in una danza che sarà annunciata sin dal titolo dei singoli film: l'equilibrio tra bene e male (Guerre Stellari), il prevalere del male (L'Impero colpisce ancora), il riscatto del bene, quindi, l'affermazione della verità (Il ritorno dello Jedi).
     In effetti, già in THX 1138 lo scontro tra bene e male supera lo schematismo attraverso una prospettiva di chiarificazione delle "potenzialità" dell'individuo: affrontare la lotta contro il sistema ipermeccanizzato significa anche percepire la gravità della propria condizione di individuo tenuto in una condizione di totale "snaturamento", e recuperare l'autodeterminazione (la "Forza" (1)) per fuggire ai controlli del sistema significa percepire l'urgenza di una ribellione imperiosa e fatale ai meccanismi dell'automa sociale. L'estrema conseguenza di questo tragitto di ribellione è la scoperta della verità, che determina a sua volta una nuova concezione dell'esistenza, simbolizzata nel finale di THX 1138 attraverso la scoperta da parte del protagonista di una realtà altra, di cui si negava l'esistenza negli ambienti sotterranei del pianeta. L'immagine di Duvall stremato che, raggiunta la superficie terrestre, apre la botola e sbuca fuori, non trova il paesaggio azzerato dalle radiazioni propagandato minacciosamente dal sistema, ma un immenso sole che accoglie la sua rinascita, si iscrive senza equivoci nel clima simbolico di una fiaba sociologica, secondo quell'affabulazione romanzesca che sarà comune a tutti i film di Lucas fino a I predatori dell'arca perduta.
     L'esordio di Lucas è all'insegna del recupero di quegli elementi dell'immaginario fantascientifico classico di cui il regista verifica l'inossidabilità attraverso un racconto destinato a nascondere la sua vocazione classica nella brillantezza di uno stile in cui trova ampio spazio il gioco delle contaminazioni. THX 1138 è, in questo senso, un film ostentatamente "postmoderno" eppure vivificato dal sapore di verosimiglianza della ricostruzione scenica e sorretto dalla sobrietà della narrazione. Inoltre, la modernità di Lucas è da cogliersi nel clima altamente simbolico in cui egli cala il suo immaginario, bagnando la vicenda di toni ora messianici e speranzosi, ora impauriti e oscuri.
     Lo stile del racconto, sospeso tra simbolismo e iperrealismo, favorisce presto un'interpretazione critica meno scontata del suo lavoro. Sergio Arecco, ad esempio, si domanda se "THX, nel suo camice bianco, col capo raso, fra le pareti nude della sua stanza-utero, spesso rannicchiato in posizione fetale, circondato da altre larve come lui, non allegorizza forse la condizione del neonato che apre gli occhi per la prima volta, senza ancora distinguere nulla? E tutta la fabula del film non veicola forse la metafora della nascita, o rinascita, dal grembo altrui, con le proprie sole forze? E non è questa una simbologia anche autobiografica?" (2).
     Non è pertanto un caso che tutti i film di Lucas ottengano nel corso del tempo una sorta di supervalutazione critica. Il destino interpretativo del regista di Guerre Stellari prende le mosse senza dubbio dall'aura "sperimentale" di THX 1138, film che pone le premesse per uno stile caratterizzato dalla fascinazione per le nuove acquisizioni della tecnologia e il riproporsi di costanti, narrative e tematiche, di sapore antico. La moderna epica di Guerre Stellari sembrerebbe dunque anticipata da questo racconto allusivo, conoscitivo, ritualistico, sorta di allegoria "rinascimentale" del nuovo cinema statunitense che cerca di opporsi all'omologazione dell'immaginario nutrendosi delle molteplici possibilità offerte da una scrittura costantemente simbolica, affascinata da un mondo ideale che come un dedalo mostra anfratti di morte e crudeltà, ma anche momenti di rivalsa possibilista.
     Il cinema di Lucas muove quindi i suoi passi nel terreno dell'arcano esibendo una predilezione per il "germe" della ribellione in contesti sociali diversificati. In questo senso la trilogia composta da THX 1138, American Graffiti e Guerre Stellari appare decisamente compatta. Il tema del riscatto da un universo concentrazionario (sorta di mondo demoniaco o di Leviatano, come avrebbe notato anche Arecco (3)), che si modula attraverso il canone della fuga e dell'inseguimento, è comune alla vicenda di THX e della sua compagna SRT, a Luke Skywalker e Han Solo di Guerre Stellari, mentre non è improprio riconoscerlo indirettamente anche nella ipnotica deambulazione dei personaggi di American Graffiti, per i quali la notte diviene l'inesauribile "territorio di fuga" dalle regole di un mondo adulto percepito come imperscrutabile. La ribellione inscenata in THX 1138 anticipa dunque il bisogno di sperimentare una concezione più autentica del vivere, attitudine che sarà propria del personaggio più enigmatico di American Graffiti, il giovane Curt Henderson al quale il Circolo dei Commercianti devolve un assegno di duemila dollari come borsa di studio in suo favore affinché lui, ragazzo intellettualmente dotato, possa frequentare un collegio dell'est. E la reazione di Curt, la sua esitazione dinanzi a quell'allettante offerta degli adulti, esprime una ribellione al pensiero comune che si manifesta attraverso la condizione di una protratta e irriducibile afasia, sintomo di disadattamento ma anche, nel film di Lucas, di una personalità gratificata dall'emergere del proprio spirito anticonformista. L'incertezza esistenziale del ragazzo californiano del 1962 è all'origine della sua coscienza di scrittore, tale sarà infatti, un giorno, il destino di Curt; se non sapremo mai di cosa si occuperà il giovane, di quali argomenti nutrirà i suoi libri, grazie al respiro di grande nostalgia evocato da American Graffiti è legittimo immaginare che egli non riuscirà a liberare facilmente i suoi pensieri dalle origini di "navigante" nella fitta rete di luci notturne del paese natio.
     Luci, bagliori, immagini. Come il viaggio nell'iperspazio dell'astronave Millennium Falcon in Guerre Stellari, il cinema di Lucas esplora l'impatto dell'individuo con le molte realtà di un universo abitato da luci, ologrammi, riproduzioni digitali, lanciandosi a tutta velocità in una sinfonia visiva che esprime tensione nei confronti della famigerata "riproducibilità tecnica", così come nei riguardi di un'esistenza minacciata da quel "grande fratello" della nostra epoca chiamato serialità. Il rischio nel quale incorre l'uomo del futuro (e questo discorso vale, a ben vedere, sia per il protagonista di THX 1138 che per i futuri adulti di American Graffiti) è di perdere coscienza, cadere stordito nel marasma sonnambolico di un mondo percepito come pura superficie visiva; a questo proposito THX 1138 trasmette l'inquietudine per un universo futuro dominato da immagini stranianti, e proprio grazie a una simile prospettiva hanno avuto buona ragione coloro che hanno saputo leggere nel film l'attualizzazione di una tematica kafkiana. Tuttavia, il percorso di Lucas deve il suo smalto iperrealista soprattutto all'ispirazione cinefila, la stessa che sarà percepibile nei migliori episodi filmici dell'amico Steven Spielberg (pensiamo in particolar modo a Incontri ravvicinati del terzo tipo, forse il più affine alla tensione estetica di Lucas).
     Dunque la suggestione kafkiana, come il riflesso di film quali Aurora (Murnau) e Il processo (Welles), sono da leggere nell'ottica citazionistica propria di un cinema che si nutre di immagini altrui mimetizzandosi in una forma cinematografica abbagliante, luminosa, ipotizzando una dimensione sociale (gli ambienti asettici e supersorvegliati di THX 1138, lo sfavillio delle strade notturne di American Graffiti) nella quale è in atto la battaglia inquietante tra reale e virtuale.
     THX 1138, come abbiamo detto, sarà un flop ai botteghini. Esso verrà riscoperto solo in seguito all'enorme successo di American Graffiti, diventando un vero e proprio cult-movie per le nuove generazioni. In Italia uscirà soltanto nel 1976. Curiosamente, nell'arco di 4 anni, il nostro paese verrà "invaso" dai tre film di Lucas.
     American Graffiti è notoriamente uno dei più grandi successi cinematografici degli anni Settanta. L'enorme popolarità del film è dovuta principalmente all'inventiva del suo autore, il quale sembra sapere più di chiunque altro cosa possa affascinare i giovani cinespettatori americani. Innanzitutto, a fare breccia nel cuore delle nuove generazioni, è il clamoroso effetto "revival" evocato dalle immagini, che invita lo spettatore a tuffarsi in una dimensione di sogno nella quale ciò che conta è liberarsi dai pensieri angosciosi della vita "diurna" per dedicarsi unicamente alla gratificazione dei propri desideri. In questo senso American Graffiti incarna l'idea stessa di cinema quale esperienza onirica, un'idea che d'ora innanzi Lucas non abbandonerà più. Cosa di meglio, allora, che avere tutto il tempo per rimorchiare le ragazze, lanciarsi in sfide temerarie con le automobili, provare l'ebbrezza della "bumba" (ovverosia gli alcolici), non dovere ascoltare i ricatti della fedeltà di coppia e tutte le regole "da grandi" che affliggono la vita dei ragazzi di provincia? Lucas, con il suo secondo lungometraggio, realizza il prototipo del "film-desiderio", costruendo un giocattolo vivificato da una colonna sonora che diverrà presto un glorioso hit internazionale.
     Come un caleidoscopico e modernissimo "video-clip", American Graffiti è scandito ininterrottamente dalle note di Bill Haley (Rock around the clock è la canzone-simbolo con cui si apre il film), Crests (Sixteen Candles), Del Shannon (Runaway), Beach Boys (Surfin' Safari, All Summer Long), Platters (Smoke Gets in Your Eyes, Only You, Pretender), Joey Dee & The Starlighters (Peppermint Twist), Regents (Barbara Anne), Monotones (Book Of Love), Chuck Berry (Johnny B. Goode), Johnny Burnette (You're Sixteen - You're Beautiful - And You're Mine), Sonny Till & The Orioles (Crying In The Chapel), Spaniels (Goodnight, Well It's Time To Go).
     Ogni canzone, interrompendosi, lascia il posto alla successiva secondo un'alternanza mai casuale. Ciascun brano diviene infatti necessario per la comprensione del particolare episodio rappresentato, secondo una concezione di cinema sinfonico e corale che trae energia dalla cura meticolosa con cui il materiale sonoro interagisce con le cadenze ipnotiche del racconto cinematografico. Dunque un film composto di microeventi disposti in una successione magmatica resa armoniosa da una regia che scandisce le sequenze al ritmo dei Platters, di Chuck Berry e di un repertorio di minuziosa archeologia musicale. E il rischio di frammentarietà è superato grazie all'equilibrio dell'insieme.
     Lucas è consapevole di stare realizzando un film di pure emozioni, e un giorno considererà THX 1138 la sua "testa", e American Graffiti il suo cuore.
     Coerentemente, il regista si concentra sul cuore emotivo del film rappresentato dai giovani americani dei primi anni Sessanta. Precisamente, ci troviamo nella California del 1962, con buona probabilità a Modesto, città natale di Lucas e di Steve, uno dei protagonisti. Il film ripropone la serata d'addio alle vacanze estive. Tra le molte microstorie Lucas predilige quattro personaggi e le loro disavventure. Insieme formano un clan che onora quotidianamente il rito del raduno al Mel's Drive-in. Qui convengono, uno alla volta, il goffo e proletario Terry Fields (Charlie Martin Smith), sempre in vespa e alla ricerca di una bellona che gli rivolga un'occhiata, Steve Balander (Ronnie Howard, presto star del serial televisivo Happy Days e poi regista di successo per pellicole di smagliante fede hollywoodiana)(ma anche Willow di Lucas, ndDC), il rampollo di famiglia benpensante con tanto di auto nuova e girlfriend, Laurie Henderson, smorfiosa quanto lui, Curt Henderson (Richard Dreyfuss), la "coscienza" del gruppo, intelligente al punto da ricevere un assegno come borsa di studio da parte dei commercianti del paese, ma anche il più straniato assertore dei valori della vita, scettico nei confronti dei clan e delle certezze comuni, sfuggente e infantile così come straordinariamente affascinato dalla "magia notturna" (sogna di incontrare sulla prossima auto la sua "dea", e di poter conoscere un giorno "Lupo solitario", la voce della radio che, come un "grande fratello" bonario, infonde calore e nostalgia ai ragazzi in cerca di emozioni). Infine sopraggiunge l'ultimo protagonista del film, il meccanico John Milner (Paul Le Matt), sorta di James Dean diseroicizzato, grande talento del voltante, mitizzato dall'occhialuto Terry Fields come l'imbattibile pilota della vallata di San Soaquin.
     Lucas descrive con evidente partecipazione un universo giovanile sul quale pesano grandi responsabilità. Ognuno infatti deve fare una scelta, prendere una decisione che condizionerà il proprio futuro. Chi deve, come Steve, decidere se ritenere la sua storia sentimentale con Laurie un fatto realmente importante, chi invece, come Curt, riflettere se valga la pena raggiungere il college oppure se sia meglio buttare via ogni cosa e restare nella soffocante provincia di Modesto. In questo clima d'incertezza, trasfigurato nella sarabanda movimentata di suoni e luci del film, incutono particolare simpatia coloro che non sembrano avere molte possibilità di scelta nel proprio immediato futuro: Terry Fields, buffo giullare squattrinato, paladino d'inadeguatezza ma sempre sul punto d'inventare qualche nuova soluzione per mettersi al pari con i più collaudati rivali, John Milner nostalgico senza méta (spegne bruscamente la radio sulle note di Surfin' Safari dei Beach Boys e dichiara con tristezza che il vero rock'n'roll è finito con la morte di Buddy Holly), proletario e viscerale proprio come il deificato Holly, immagine del "duro ribelle" la cui progressiva inattualità comunica sgomento più che nostalgia.
     La didascalia finale del film (spesso censurata nelle riedizioni italiane passate in TV, secondo un malcostume che produce un vero e proprio snaturamento con relativo "alleggerimento" del senso di American Graffiti), rappresenta una sorta di lapide che sancisce il limite definitivo della grande notte di divertimenti: Steve sarà un giorno un agente delle assicurazioni a Modesto, Curt diverrà scrittore e vivrà in Canada, John perderà la vita nel 1964 investito da un ubriaco, Terry morirà in Vietnam nel 1965.
     La finitezza dell'esistenza assume un significato impietoso per questi giovani.
     Il film favorisce dunque il recupero di un passato che non può risolversi in puro revival. Se Lucas si impegna, come sarà nel successivo Guerre Stellari, in una riproduzione dei segni esteriori dell'epoca che sembra fuoriuscita da un'enciclopedia (drive-in, bluejeans, t-shirts, flipper, giubbotti di pelle, gonne larghe con la vita stretta, ecc.), la sua opera va al di là dell'immagine del film-cartolina producendosi in una rivisitazione nostalgica di quell'età, i sedici anni, in cui ogni fatto dell'esistenza acquisisce un significato rituale, consonante con i cambiamenti che ciascun individuo deve affrontare. In questo senso, American Graffiti diviene davvero un film simbolo, poiché, più dello scrupolo filologico, conta in esso la celebrazione appassionata, divertente ma anche amara di una condizione nella quale i miti verranno presto vanificati o smascherati (come succede a Curt il quale, alla fine del film, scopre che "Lupo solitario" non trasmette da un satellite in orbita come favoleggiato dai giovani, ma dalla periferia di Modesto, e altri non è che un simpatico grassone con la barba).
     Film nostalgico, dunque, ma anche film sospeso sulla condizione di passaggio dal sogno al reale, vivificato dall'idea che i miti sono comunque indispensabili per ciascuno. THX 1138, in questa prospettiva, sembra il negativo di American Graffiti. Nel primo film di Lucas il personaggio doveva liberarsi da un mondo di incubo per scoprire che la vita sulla terra non era affatto invivibile come pretendeva il Controllore Supremo. Alla fine, un immenso sole nascente avrebbe infatti riscaldato la nuova nascita dell'uomo. In American Graffiti il sogno sembra confinato nella notte, e la scoperta della realtà, mentre smaschera il mito, ne rivendica l'importanza per l'individuo. L'alternativa è di rimanere degli eterni borghesi benpensanti come Steve, oppure morire senza avere sognato l'esistenza della propria "dea ispiratrice".
     Lucas, con American Graffiti, mentre è coinvolto fino in fondo dall'aspetto emotivo dei suoi sognatori, lascia tuttavia tra parentesi la riflessione sull'infantilismo giovanilista degli americani, mostrando una disposizione d'animo estremamente conciliante con quell'eden di eterni ragazzini.
     La tappa successiva della sua carriera sarà propriamente la saga di Guerre Stellari cui è dedicato interamente questo libro.
     Senza dubbio American Graffiti pone le basi per la strategia di serializzazione dell'immaginario di cui si sarebbe d'ora innanzi nutrito il lavoro di Lucas. In questo, ancora una volta, il regista è influenzato da Coppola il quale, nel 1974, cioè l'anno successivo ad American Graffiti, realizza con enorme successo di critica e di pubblico il primo seguito de Il Padrino. Ma sarà soprattutto Lucas a fare della serialità una colonna portante del nuovo cinema e insieme una "dichiarazione d'intenti"; ciò, beninteso, non soltanto attraverso la trilogia di Guerre Stellari, ma anche con l'ideazione della saga dell'archeologo Indiana Jones e la creazione dell'Industriai Light + Magic, vero e proprio laboratorio di sperimentazione nel campo degli effetti speciali. Inoltre, e non proprio per caso, nelle reti del cineasta capiterà talvolta la produzione di qualche film "teorico" come Mishima di Schrader o Tucker di Coppola.
     Varrà quindi la pena, a questo punto' di soffermarsi sul più cIamoroso tra i progetti realizzati da Lucas e Spielberg. Per puro caso I due vecchi amici si erano ritrovati assieme in vacanza alle Hawaii nel maggio del 1977. Guerre Stellari era uscito da poco e stava sbancando il box-office. Lucas confidò all'amico fraterno di avere in mente un progetto altrettanto clamoroso, un film incentrato su di un archeologo insolito, Indiana Jones, un po' atleta, un po' scienziato, un eroe e un mercenario, sorta di James Bond degli anni Trenta animato da una passione profonda e "disinteressata" per i fatti e gli oggetti storici.
     Il film, che sarebbe stato diretto da Philip Kaufman, avrebbe seguito le avventure di Indiana Jones alla ricerca della leggendaria Arca dell'Alleanza. Spielberg confessò di essersi innamorato del progetto dopo pochi istanti: "George me ne parlava da cinque minuti ed ero già in piedi, incapace di trattenere l'eccitazione" (4). Quando, qualche mese più tardi, Lucas gli disse che Kaufrnan aveva rinunciato alla regia, Spielberg confidò all'amico il desiderio di dirigere il film personalmente. Contattò allora il giovane sceneggiatore e futuro regista Lawrence Kasdan, che approntò una sceneggiatura adattata fedelmente al dinamismo grafico dei numerosi bozzetti preparati da Spielberg durante l'ideazione del lavoro. Dopo cinque mesi di intensa scrittura, Kasdan si presentò infine con una sceneggiatura ricca e fantasiosa. A quel punto, nel dicembre del 1979, Lucas volle definire assieme a Spielberg e Kasdan un dettagliato piano di produzione, pretendendo anche l'alleggerimento di alcune parti della sceneggiatura.
     Alla vigilia del nuovo decennio, Lucas e Spielberg si stavano dunque preparando ad allestire un film che sarebbe apparso grandioso nella messa in scena, ma che sarebbe risultato relativamente economico nella realizzazione. Sarebbe stata questa, d'altronde, la regola dei due cineasti per tutti gli anni Ottanta.
     Le parole di Spielberg sono rivelatrici del lavoro con Lucas: "Cominciammo a girare nel giugno dell'80 e finimmo nel settembre dello stesso anno. Fu il periodo complessivo di riprese più breve che mi trovai a fare dai tempi di Sugarland Express. Per Sugarland ci vollero cinquantacinque giorni. I predatori, con tutta la sua spettacolarità e la sua esuberanza, lo girammo in settantatre giorni, cosa di cui sono orgogliosissimo. Volevo davvero girarlo in modo economico, facendolo apparire come un film da quaranta milioni di dollari, spendendo invece solo venti milioni, che era il budget originariamente previsto. I venti milioni, però, avrebbero coperto ottantasei giorni di riprese, ma io avevo organizzato un secondo piano generale di settantatre giorni, di cui pochissimi sapevano e la Paramount per prima. Quello fu il piano di lavoro che seguimmo e scoprii che non facendo i circa cinquantatre ciak previsti per ogni inquadratura, ma facendone soltanto, diciamo, da tre a cinque, riuscivo a mettere molta più spontaneità nel film e, insieme, meno pretenziosità e meno indulgenza nei confronti di me stesso".
     La prontezza di Spielberg nell'adattarsi alle esigenze organizzative del progetto rappresenta già un primo elemento per individuare la sensibile affinità con Lucas; quest'ultimo, d'ora in avanti, sempre più produttore e ideatore di nuove formule cinematografiche anziché esecutore in prima persona. Ma le affinità tra i due cineasti toccano più punti. La loro collaborazione imprime infatti una svolta alla carriera di entrambi. Mentre registi come Coppola, Scorsese e Schrader saranno riconosciuti come i "film-makers" del nuovo cinema statunitense, ovverosia autori di pellicole di impatto popolare ma ricche di spunti critici e influenze artistiche, Lucas e Spielberg saranno invece per lungo tempo soltanto dei "movie-makers", cioè i fortunati ideatori di pellicole di facile presa sul grande pubblico (in particolar modo su quello giovanile), il cui obiettivo principale è di sbalordire con un accumulo di trovate ad effetto.
     Sarebbe apparsa come sempre più inequivocabile, in seguito, la seguente dichiarazione di Spielberg all'indomani dell'incredibile boom de Lo squalo al botteghino; un'affermazione che il regista si lascia sfuggire pensando proprio all'entourage dei suoi amici-collaboratori, tra i quali, appunto, Lucas, Zemeckis, Milius e De Palma: "Ci scambiamo spesso aiuto e copioni: siamo interessati a fare film intelligenti e ben fatti che possano rivolgersi a milioni di spettatori ed assolutamente disinteressati a film di successo critico che nessuno andrà a vedere". Una dichiarazione che lo stesso Spielberg avrebbe cercato di far dimenticare in futuro realizzando film "seri" come L'impero del sole e Schindler's list. Ma si tratta, ad ogni modo, di una dichiarazione d'intenti estremamente attendibile, se pensiamo all'evoluzione della carriera della coppia Lucas-Spielberg negli anni a venire.
     Il primo film realizzato assieme si intitola I predatori dell'arca perduta, e fu uno dei successi più travolgenti del 1981. Sin dalla prima sequenza, attraverso la celebre sovrimpressione della montagna che prende il posto del marchio Paramount, possiamo percepire lo smalto di un film determinato a riaprire il conto in sospeso con lo stile e l'entusiasmo del cinema avventuroso americano d'un tempo; un progetto di regia che propone in una formula inedita e scoppiettante il temperamento di un antieroe, l'archeologo Indiana Jones interpretato da Harrison Ford, icona attualizzata di un immaginario cinematografico di antica memoria.
     Se I predatori dell'arca perduta è innegabilmente frutto del piglio spielberghiano, risulta nondimeno indubbio che affiori in esso una perfetta intesa tra i due uomini di spettacolo. Assieme, Lucas e Spielberg recuperano la figura del paladino di grandi avventure, senza parodizzarla secondo il gusto corrente, ma calcando certamente i toni ironici e da "burlesque"; la loro operazione si ispira evidentemente al cinema americano degli anni Trenta e Quaranta, ma soprattutto al carisma divistico di Humphrey Bogart, mentre, a livello narrativo, il loro lavoro si concentra in principal modo sull'intento di riprodurre il dinamismo grafico dei fumetti americani d'epoca, tanto più che lo storyboard del film è concepito sin da subito come un'enorme tavolozza a fumetti. E se gli aspetti visivi e scenografici riprendono gli stilemi e il fascino delle tavole di FIash Gordon, sul piano del ritmo narrativo ci troviamo piuttosto dalle parti dei film con l'agente segreto James Bond, sorretto per di più da un inedito gusto disneyano (mentre in futuro si parlerà di alcuni film disneyani, tra cui Aladdin, somiglianti ai film di Spielberg).
     Occorre precisare che il progetto di Lucas e Spielberg si fonda su una proposta solo presuntamente inattuale. Infatti, l'enorme successo del film e del personaggio non è dovuto soltanto alla promessa fatta al pubblico di due ore di straordinario divertimento, ma anche all'aspetto di archeologia dell'immaginario che I predatori dell'arca perduta sviscera e ripropone nei primi anni Ottanta. I predatori dell'arca perduta è infatti un grosso catalogo di riferimenti, come American Graffiti lo era di una differente epoca storica: l'eroe-mito degli anni Trenta, il mercenario alla Bogart in epoca di Guerre Mondiali, le terre misteriose del Nepal, le tombe dei faraoni egizi la cui profanazione grida vendetta, l'elemento magico celato nell'Arca dell'Alleanza, il magazzino finale nel quale viene depositata l'Arca, a sua volta immagine di un ipotetico "archivio dell'immaginario".
     Tra i molti elementi implicati nella catalogazione, a uscire da un processo di museificazione è soprattutto il versante spiritualista della vocazione cinematografica, che ne I predatori dell'arca perduta risuona come una sorta di ideale rivendicazione ebraica contro la ferocia dei nazisti profanatori (emblematica a questo proposito la clamorosa sequenza finale con Indiana Jones e la sua compagna che si salvano chiudendo gli occhi dinanzi alla "tentazione demoniaca" di vedere le ricchezze nascoste dentro l'Arca, mentre la furia divina si scaglia contro il manipolo di nazisti capitanati dal perfido e fumettistico Belloq). Il versante spiritualista, in particolar modo, deve essere molto importante per i due cineasti, se pensiamo che Spielberg aveva realizzato quattro anni prima un film come Incontri ravvicinati del terzo tipo la cui vocazione messianica era ben raffigurata dall'arrivo degli angeli-alieni sulla Terra, mentre i personaggi predestinati al "contatto" come Richard Dreyfuss (interprete-feticcio di Spielberg non a caso proveniente dalla fucina lucasiana di American Graffiti) rivolgevano spesso gli occhi al cielo in attesa di una visione rassicurante.
     Lucas e Spielberg propongono dunque un cinema nel quale gli effetti speciali raggiungono livelli ragguardevoli. Il loro lavoro diviene, in qualche modo, raffigurazione di quelle "visioni supreme" agognate da Dreyfuss in Incontri ravvicinati. In questo senso il loro sforzo appare nutrito soprattutto di cinema e di sperimentazione visiva. Tuttavia è dato cogliere nel loro comune exploit anche un meno consolante "lato oscuro".
     I successivi episodi della saga di Indiana Jones sono il sicuro riflesso di questa circostanza. Occorre ricordare, a questo proposito, che il progetto di Lucas prevedeva una trilogia sin da subito, ma a patto che il primo film riscuotesse un buon successo di pubblico (esattamente come previsto per Star Wars, ndDC). Tuttavia, diversamente da Guerre Stellari, la trilogia dell'archeologo non era stata del tutto progettata anticipatamente nelle sue trame. Decisivo, su questo punto, è stato l'intervento di Spielberg.
     Del trittico interpretato da Harrison Ford, il secondo episodio, Indiana Jones e il Tempio Maledetto, è quello che ha fatto storcere il naso alla maggior parte dei fan. Film eccessivamente claustrofobico e sepolcrale, è stato detto.
     In effetti, il film presenta una sceneggiatura più scarna rispetto al capostipite, una scrittura che si adagia in modo piuttosto meccanico su una sinfonia di sacrifici umani e riti vudù (in realtà siamo in India, ndDC), con Indiana alle prese questa volta con i seguaci di una dea assassina e i rischiosissimi sforzi per cercare di salvare centinaia di bambini tenuti come schiavi in una miniera. Il ritmo, incalzante nella pima parte, non salva però le debolezze della seconda. Indiana Jones e il Tempio Maledetto, comunque, rende conto ancora una volta della vocazione cinefila di Lucas e Spielberg, che si rifanno sfacciatamente alle vecchie scenografie dei film con Tarzan e Bela Lugosi, tanto più che il racconto insiste sui riferimenti al culto della dea Kalì e sulle imprese sanguinarie dei Thugs. Inoltre, in modo ancora più esplicito rispetto a I predatori dell'arca perduta, l'intrepido e ironico Indiana viene affiancato da una ragazza continuamente in disaccordo con lui ma fatalmente innamorata (qui la biondina Kate Capshaw, futura signora Spielberg). La donna, come altre interpreti spielberghiane, sembra provenire direttamente dalle deliziose commedie anni Trenta di Howard Hawks. Il clima di morte e truculenza, smussato a tratti dall'ironia e dalla goliardia carnascialesca del racconto, sembra comunque appartenere pienaniente all'ideatore di Guerre Stellari. Anzi, possiamo dire che Indiana Jones e il Tempio Maledetto appare più cupo e sinistro de I predatori dell'arca perduta quasi come L'Impero copisce ancora si mostrava meno enfatico e possibilista di Guerre Stellari.
     In ultima analisi, Indiana Jones e l'ultima crociata, terzo e sino ad oggi ultimo episodio della saga (ma da tempo corre voce di un ipotetico quarto episodio, temporaneamente rimpiazzato dal serial televisivo sul giovane Indiana a sua volta interrotto a causa della prematura scomparsa del giovane interprete River Phoenix), è spielberghiano soprattutto nel recupero della figura del padre del personaggio, ruolo che viene assegnato al carismatico Sean Connery. Questi, attore-feticcio del cinema spionistico, è l'emblema di un ideale confronto tra il modello avventuroso-rocambolesco degli anni Sessanta (i film di James Bond, appunto) e gli eredi spirituali degli anni Settanta-Ottanta-Novanta come Lucas e Spielberg, imbevuti di cinefilia e spregiudicato sensazionalismo.
     Ma, a bene vedere, Indiana Jones e l'ultima crociata è anche un film lucasiano, nella misura di un rinnovato scontro tra bene e male che tanto caratterizza il cinema di Lucas. Infine, esso è il simbolo luminoso della collaborazione tra due cineasti affini, entrambi orfani di autentici padri spirituali e agitati dal costante desiderio di trasfigurare attraverso racconti iperbolici il proprio "lato oscuro".
     Per concludere questa breve carrellata sulla filmografia di Lucas, può essere interessante sottolineare come la carriera di questo fortunato cineasta (ma lo stesso si potrebbe dire di Spielberg) si sia occasionalmente fronteggiata, in anni di grande sfarzo per la "Lucasfllm", con l'ispirazione maggiormente idealista e critica di alcuni "film-makers" suoi contemporanei. Pensiamo alla produzione di film quali Mishima (Paul Schrader), oppure Tucker (Francis Ford Coppola), quest'ultimo raffigurazione di una parabola di industriale-inventore particolarmente consonante con la figura del cineasta "artigiano" George Lucas. E pensiamo al progetto a lungo caldeggiato da Spielberg, poi abbandonato, per un lungometraggio dal romanzo-scandalo Cruising, che sarebbe successivamente passato nelle mani dell'inquieto William Friedkin, o, infine, all'idea di Lucas per un rifacimento di Arancia meccanica, manifesto del cinema moderno e perturbante. Sono le tracce di quel "lato oscuro" dietro la favola bella di questi famigerati bambini-prodigio.



     Apparso su "Guida completa a Star Wars: da Guerre Stellari a La Minaccia Fantasma", Falsopiano, 1999





     Note:

(1) Lettura, quella della Forza come affermazione di sé, che abbiamo sempre contestato e che lo stesso Lucas, recentemente, ha destituito di valore chiarendo che il suo obiettivo era farne un'immagine se non di Dio quantomeno del "divino" (Nd Davide Canavero).

(2) Sergio Arecco, George Lucas, Il castoro cinema, La Nuova Italia, 1995, p. 31.

(3) Sergio Arecco, op. cit.

(4) The Making of "Raiders of The Lost Ark", Ballantine Books, New York, 1981, p 25.





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