#FanTheory – Boba Fett
Oggi vi presento un breve racconto sul cacciatore di taglie più famoso della galassia! Ho provato a immaginare quali possono essere stati alcuni degli eventi accaduti al nostro Boba Fett nello spazio di tempo fra la caduta nel Sarlacc e la sua ricomparsa nella seconda stagione di The Mandalorian. Buona lettura!
Rinascita su Tatooine
Era in stato di semicoscienza. Quel poco di percezione del mondo circostante che gli rimaneva era tutta concentrata sul dolore che invadeva il suo corpo. Sentiva i fluidi gastrici del Sarlacc insinuarsi nei punti del corpo non protetti dalla vecchia e logora armatura. Persino il volto sembrava andargli a fuoco. Avrebbe voluto togliersi l’elmo nella speranza di ricevere un po’ di sollievo dal contatto con l’aria, ma in quel momento, al di fuori di quella barriera in beskar, non lo aspettava una situazione migliore. Solo acido, ancora e ancora acido. Tenere l’armatura era la cosa che lo proteggeva meglio dall’azione corrosiva della pozza in cui si trovava, da quei succhi gastrici ad azione lenta. O sarebbe stato più corretto dire ad azione lentissima, visto che quel vecchio droide luccicante, traducendo ciò che diceva il rivoltante Jabba The Hutt, aveva parlato di un processo digestivo della durata di un migliaio di anni. Ciò non avrebbe fatto altro che prolungare le sue pene, proprio nell’unico momento della sua rocambolesca vita in cui maggiormente avrebbe desiderato scomparire per sempre. Proprio lui, uno dei più famosi cacciatori di taglie della galassia. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato destinato ad una fine tanto ignobile?
Ad un tratto percepì una forte esplosione provenire dall’esterno di quella che sarebbe stata, in tutta probabilità, la sua ultima residenza. L’esplosione si tramutò in un boato che fece tremare il suolo e la stessa creatura che lo stava digerendo. La scossa fu talmente forte da sbalzarlo sull’altro capo dello stomaco del Sarlacc, facendolo atterrare nuovamente di schiena. Percepì lo scivolare all’interno della fossa di un’enorme massa, accompagnata da un indistinto suono metallico. Ci volle qualche secondo prima che si rendesse conto di trovarsi in un punto molto più a riparo dal liquido corrosivo. I dolori diminuirono di poco ma abbastanza da dargli la forza di riaprire gli occhi per guardarsi intorno. Alzò il volto e vide la luce, giusto quel poco che poteva essere vista attraverso l’elmo sporco di resti di altre creature intente a lasciarsi assimilare. Con la mano cercò come meglio poté di pulirsi la visiera, almeno per riuscire a comprendere meglio l’evoluzione della situazione. Vi era del fuoco e del fumo che provenivano dall’altro capo dello stomaco della bestia. Cominciarono ad elevarsi con sempre più forza urla agghiaccianti, un miscuglio di latrati di alieni di razze differenti, simili a quelli che si sarebbero potuti sentire se una truppa imperiale fosse entrata a fare pulizia a colpi di blaster nella variegata etnicità della Cantina di Mos Eisley. Con fatica riuscì a porsi in piedi, posizione che gli facilitò l’individuazione delle cause di quella confusione. Un lamento poderoso si innalzava dalle viscere del Sarlacc. Non c’erano dubbi: quelli che stavano andando a fuoco dinnanzi ai suoi occhi erano enormi frammenti del galeone di Jabba. Vi erano pezzi di fiancata della nave conficcate ovunque nell’apparato digerente del mostro desertico. Cominciò ad elevarsi un ultimo flebile gorgoglìo dalle membra dilaniate, il quale sanciva gli ultimi attimi di vita dell’orrenda creatura. Ora, con la bestia messa fuori gioco e una via di fuga apertasi sopra di lui, era il momento di cogliere l’opportunità e lasciare quel luogo. In Boba stava infatti rinascendo la risolutezza che lo aveva sempre contraddistinto, fin da quando mosse i suoi primi passi nella galassia. La stessa risolutezza che aveva sempre visto negli occhi del padre, la stessa che era sicuro fosse scolpita sul suo volto nei secondi precedenti alla propria morte per mano del jedi. Mentre incideva faticosamente attraverso l’instabile fondo dello stomaco del Sarlacc, trascinando le gambe attraverso quella palude corrosiva, non poté non pensare alle responsabilità di quell’altro jedi di nome Skywalker nella fine di Jabba e della sua ciurma. Quegli stregoni ancora una volta avevano avuto la loro parte nella sua vita. Incontri sempre all’insegna del contrasto, almeno da che ne avesse memoria. Prima gli avevano preso il padre e ora per poco ci stava rimettendo la vita pure lui. Ma non sarebbe andata così, non glielo avrebbe permesso. Giunse al di sotto dello squarcio che il galeone aveva causato crollando, squarcio che ora aveva ingigantito ancor più la bocca del mostro. La luce dei soli di Tatooine penetrava con più forza, infondendogli ancor di più la determinazione di cui necessitava per tirarsi fuori dalla carcassa intrisa di resti maleodoranti. Si volse intorno mentre si teneva con la mano destra un lato del busto particolarmente inficiato dall’acido. Vide il cadavere di un gamorreano riverso a testa in giù nella pozza gastrica e un altro ancora vivo e urlante un po’ più distante. Una vera strage. Ma a lui non importava più di tanto, tutto sommato quella gente se l’era meritato. In realtà considerando il suo passato forse se lo sarebbe meritato anche lui, ma ormai, vista l’opportunità prospettatasi, non intendeva più pagare il conto quel giorno. Provò ad azionare il jet-pack ma era del tutto andato, quindi si guardò intorno per cercare un’altra soluzione. Mentre il fumo continuava ad aumentare rendendo il luogo sempre più soffocante, intravide uno dei tentacoli della creatura riverso lungo l’interno di una delle pareti digerenti. Lo raggiunse, ne tastò la resistenza in maniera molto approssimativa e fece lo sforzo immane di arrampicarsi lungo di esso. Ogni falcata provocava frizione fra l’armatura e la pelle bruciata, aumentando costantemente la sua sofferenza. Il viscido liquido corrosivo che lo ricopriva rendeva ogni superficie con cui veniva a contatto estremamente sdrucciolevole. Con non poca fatica giunse nei pressi di uno dei denti ricurvi presenti poco prima dell’ingresso alla bocca del mostro.
Ormai era praticamente fuori dal corpo della creatura, ma era necessario arrampicarsi su qualche altro artiglio e sporgenza rocciosa per poter raggiungere la sommità della cavità e potersi ritenere al sicuro. Durante la scalata perse più volte la presa dell’appiglio successivo senza però cadere, rimanendo saldamento aggrappato anche con un solo braccio, tra le urla causate dai dolori lancinanti. Infine, giunse al bordo della fossa, fece un ultimo sforzo e, accompagnando il tutto con un ultimo grido di sofferenza, se ne tirò fuori. Strisciò ancora per qualche passo, rimanendo supino. Era esausto. Esausto ma salvo. Si voltò sulla schiena e si tolse immediatamente l’elmo respirando affannosamente. Ce l’aveva fatta. Era riuscito a uscire vivo dal Sarlacc e probabilmente era l’unico nella storia di quel pianeta ad esservi riuscito, pensava mentre era immerso nei deliri causati dalle ferite. La luce dei soli colpiva il suo viso. Nonostante l’arsura causata dall’acido, riusciva ugualmente a trovare rivitalizzante quell’ulteriore calore naturale che colpiva il pianeta desertico da millenni. Quei due soli, i quali avevano significato per molti la morte, per lui ora rappresentavano la vita. Si alzò un leggero vento che in condizioni normali sarebbe stato percepito come ardente ma che, in quel caso, ristorava le ferite che ormai segnavano il volto. Poi la luce lentamente si affievolì, oscurata dalle ombre di alcune figure in avvicinamento. Li sentì emettere familiari suoni gutturali, mentre si muovevano concitatamente attorno al suo corpo. La fatica cominciava a farsi sentire prepotentemente. Volse la testa su di un lato e, con in sottofondo le urla lontane degli esseri morenti all’interno del Sarlacc, chiuse gli occhi. Infine ogni pensiero, suono e immagine scomparve.
La sua mente vagava in una zona dello spazio mai vista prima. Nebulose di colorazioni stranamente tenui lo avvolgevano dolcemente, dandogli una sensazione di tranquillità assoluta. Poi ad un tratto tutto crollò. Vide lo spazio conosciuto e si sentì come sparato nell’iperspazio a intervalli regolari. Alla fine di ogni rapidissimo viaggio rivedeva un episodio significativo della sua vita, tutto in terza persona: il primo ricordo di suo padre, il controllato stupore che egli provò nel vederlo muovere i primi passi, i sorrisi brevi ma intensi che solo lui riusciva a strappare dal suo volto costantemente serioso. Rivide anche il primo approccio negativo con un jedi su Kamino, la lotta che ne seguì e, infine, la testa del padre rotolante sul suolo dell’arena di Geonosis. Fu quell’ultima visione così emotivamente potente che lo svegliò.
Era madido di sudore e ansimante. Si rese conto che stava solo sognando, ma la preoccupazione che persiste alla fine di un ogni incubo scomparve immediatamente quando si accorse di trovarsi in un luogo tranquillo. Tranquillo ma anche sconosciuto. Sembrava essere una vecchia tenda in pelle chiara fissata su uno scheletro realizzato in legna secca ma visibilmente molto resistente. Era steso a terra, sul suolo sabbioso ma comunque entro coperte molto leggere, sebbene dalla lavorazione molto rozza. Con un po’ di fatica si tirò su rimanendo seduto: quello sforzo per ora poteva bastare. Indossava una vecchia tunica del colore del deserto, malconcia ma che ancora adempiva adeguatamente al proprio dovere. Ai suoi piedi vide un bizzarro assortimento di oggetti metallici di ogni tipo, dai più opachi ai più lucidi. Alcuni pezzi di vaporatori di condensa, quelle che sembravano parti delle lamiere di copertura di qualche unità astromeccanica e altri aggeggi che faceva fatica a identificare. Un pannello particolarmente lucido gli permise di specchiarvisi notando una certa quantità di uno strano unguento verdastro cosparso sul volto. Cominciò a levarselo quando qualcuno aprì il lembo della tenda che fungeva da porta, esattamente sulla destra della montagnetta metallica. Entrò una creatura che aveva visto al massimo un paio di volte nella sua carriera di cacciatore di taglie errante. Era senz’altro un Lurmen, piccolo e peloso, con una coda macchiettisticamente lunga. Il manto era di un colore nero-grigiastro ma le varie zone più candide facevano intendere che si trattasse di un esemplare di una certa età. «Ah bene! Finalmente sei sveglio mandaloriano!» esclamò la creatura con tono moderato che lasciava trasparire approvazione. «Sono passati ben quattro giorni da quando i Tusken ti hanno trovato e mai una volta che tu abbia dato segni di vita differenti dal respirare». «Quindi questa è una tenda sabbipode… ha senso, tipica manifattura di quei selvaggi» rispose Boba non troppo stupito, guardandosi ancora intorno. «Se fossi in te eviterei questo tono con loro. Dopotutto ti hanno salvato la vita. Non credi?» disse il Lurmen con un impercettibile sorrisetto. Stavolta, quando si rese conto di ciò che gli era stato detto, l’incredulità apparve sul suo volto. Si alzò di colpo, digrignando dal dolore. «Dovresti evitare i movimenti troppo bruschi…» gli disse piano l’alieno peloso mentre, intento a tracciare sulla sabbia simboli casuali col suo bastone, manteneva un distratto contatto visivo con la coda dell’occhio. Il consiglio arrivò troppo tardi: prima che potesse finire la frase Boba aveva raggiunto l’esterno della capanna. Attorno a lui vi era un accampamento costituito da una ventina di tende, tutte aventi di fronte al proprio ingresso un piccolo cumulo di legname pronto per essere arso durante la notte. Un po’ più lontano sulla sua sinistra vi erano diversi Bantha rilegati in un recinto con foraggio, sorvegliato da un Tusken armato. L’individuo si voltò a fissarlo intensamente. Boba mantenne il contatto visivo finché l’indigeno si arrese a quella silenziosa prova di forza, spostando lo sguardo altrove con un mugugno amorfo. Più lontano un altro predone era intento in una discussione con altri suoi simili. Non appena si rese conto della comparsa di Fett abbandonò immediatamente il gruppo e si diresse verso il cacciatore di taglie. Intanto il Lurmen aveva raggiunto Boba e lo aveva affiancato. Il Tusken, il quale possedeva una vistosa collana in cui vi erano inseriti pezzi di ossa di animali non identificabili, cominciò a parlare col cacciatore di taglie. Il Lurmen tradusse rapidamente quei suoni gutturali: «Il capo degli Argonsis, Sagapat, ti dà il benvenuto all’accampamento». «Gli Argonsis?», chiese Boba senza distogliere lo sguardo dal Tusken. «Sì», ribatte il vecchio Lurmen «è il nome della sua tribù». Prima che Fett potesse dire qualcosa il predone continuò a parlare. «Dice che puoi stare ancora qualche giorno per rimetterti in forze ma poi dovrai andartene. In tal modo lo scambio potrà dirsi concluso». Il capo si voltò non appena capì che la traduzione era terminata e prese per andarsene. Boba lo chiamò «Ehi tu! Quale scambio? Dov’è finita la mia armatura?». Il Lurmen tradusse frettolosamente nella speranza che il Tusken lo sentisse prima che si fosse allontanato troppo. Sagapat si fermò e, voltandosi, tornò velocemente sul luogo che aveva lasciato poco prima. Dopo che ebbe nuovamente parlato esprimendo quella che sembrava una frettolosa affermazione, Fett ascoltò l’interprete: «L’armatura faceva parte dello scambio. È il motivo per cui sei ancora vivo». «Beh, la rivoglio indietro! Non è uno scambio equo. Quell’armatura è molto importante per me» disse il clone con veemenza. Dopo la risposta del sabbipode, il Lurmen rimase per qualche secondo ammutolito. Boba lo incitò a riferirgli ciò che gli era stato detto. «Ti chiede se la tua vita vale così poco da non reggere il confronto con una vecchia armatura», tradusse l’alieno. Fett rimase in silenzio a guardare il capo in volto per qualche secondo, poi il Tusken, vedendo che la discussione sembrava essere giunta al termine, mugugnò e riprese la propria strada. «Cosa pensi di fare mandaloriano?» chiese con filo di voce il piccolo interprete. «Mi chiamo Boba Fett e credo che dovresti sapere che non potrò ritenermi un vero mandaloriano finché non riavrò la mia armatura. Tu piuttosto chi sei?». Non si aspettava quella domanda in quel momento e, dopo aver sgranato velocemente gli occhi, il vecchio Lurmen tossicchiò e rispose: «Ah sì, giusto. Ecco, io mi chiamo Gor Sin Kaa. Appartengo alla razza Lurmen, ma sono sicuro che un cacciatore di taglie famoso come te abbia girato abbastanza la galassia per aver già visto qualcuno della mia specie…». «Non sapevo di essere conosciuto anche fra i Lurmen» disse Boba emettendo, con volto serioso, un impercettibile sospiro. «Beh? Che ci fai qui con questi predoni?», chiese subito dopo. Gor Sin raccontò la sua storia: «Sono anni che vivo con questa tribù di Tusken. L’Impero ha sterminato la mia colonia sul pianeta da cui provengo. Per un evento fortuito non mi trovavo al villaggio quando è successo. Sono l’unico rimasto del mio grande insediamento. Me ne volli andare da quel luogo e una serie di eventi mi hanno portato su Tatooine. Un giorno incontrai per caso un predone Tusken ferito che curai con le conoscenze tramandate dalla mia razza. Sono un guaritore, insomma un medico, come dite voi umani. Gli Argonsis sono gente scontrosa ma riconoscente. Tutti li disprezzano ma il mio atto mi ha fatto diventare uno della tribù, complice probabilmente il mio aspetto innocuo. Quindi da allora mi dedico all’attività medica per il bene di questo insediamento, in cambio ho vitto e alloggio. Non mi lamento insomma. E poi Tatooine è un posto abbastanza morto in cui si possa scomparire per scontare la vita che mi è stata risparmiata, cosa che purtroppo non è stata concessa a qualche mio simile che forse la meritava di più». In quelle parole era evidente il rammarico del Lurmen, la colpa di cui si faceva carico e che probabilmente, nel proprio io, non avrebbe mai scontato abbastanza. Fett lo percepì e non piacendogli queste situazioni svincolò il discorso. «Quindi immagino che quella roba che avevo in faccia me l’abbia messa tu». «Immagini bene. È un unguento contro gli acidi organici. Non l’ho mai provato sull’acido gastrico di Sarlacc e francamente non credo cancellerà le cicatrici, ma almeno ha evitato infezioni». Boba non lasciò trasparire gratitudine. Non era abituato ad esprimere questo genere di sentimenti. La vita lo aveva sempre colpito duro, sin da quando rimase orfano, ma provò comunque, almeno a livello puramente formale, di far capire che era riconoscente al piccolo Lurmen: «Allora semmai è te che dovrei ringraziare, anche se credo che quel capo sia convinto di avere tutti i meriti della situazione». Il vecchio Kaa comprese che quello era un modo indiretto che usano le persone forgiate dalle difficoltà per dimostrare riconoscenza, quindi sorrise mentalmente, rispondendo con un «Figurati» che rimase chiuso nella sua testa. Poi Boba continuò chiedendo al Lurmen: «Tu sai dove l’hanno messa? La mia armatura intendo». Gor Sin sospirò dispiaciuto. «Credo che ormai sia tardi per la tua armatura, mandaloriano. Era davvero un bel pezzo d’antiquariato, come saprai molto raro di questi tempi, soprattutto dopo la Grande Purga di Mandalore. Quando un gruppo di Jawas è passato con il proprio Sandclawler, due giorni dopo il tuo arrivo al campo, il capo ha deciso che andasse scambiata con armi, munizioni ed altra roba utile al sostentamento della tribù, tra cui qualche pezzo con cui sperano costruire un vaporatore di condensa, probabilmente con il mio aiuto. Non che io ne sappia granché, sia chiaro, ma sono il tassello più utile che li lega alla civiltà. E questo tende a farmi avere più importanza di quanta io ne abbia in realtà» concluse Kaa con un leggero sorriso. Fett portò i pugni ai fianchi mal celando un’espressione di disappunto: «Un vaporatore di condensa? Fra tutte le tribù di sabbipodi dovevo capitare proprio in una con la passione per la tecnologia e il commercio…». «Beh, probabilmente se fossi capitato in un’altra tribù ora non saresti vivo. La gente su Tatooine tende a reputare tutti i Tusken degli imbroglioni che assalgono i vari insediamenti solo per il gusto di saccheggiare e uccidere. La verità è che, come ogni civiltà, anche quella Tusken è costituita sia da esseri buoni che da esseri malvagi e a volte reputare tutti appartenenti alla seconda categoria finisce per far sì che lo diventino davvero. Ma per fortuna quest’ultimo destino non è capitato agli Argonsis, come credo che infondo tu stesso possa testimoniare…». Boba Fett ascoltò attentamente le parole del vecchio senza rispondere. Poco dopo il Lurmen si congedò tornando nella sua tenda, confermando al mandaloriano che avrebbero continuato a condividere la tenda fin quando non si fosse ristabilito e avvisandolo che non si sarebbe dovuto sforzare troppo, visto che comunque se l’era vista davvero brutta.
Boba rimase fuori dalla tenda ancora per un po’. Il tramonto cominciava a calare su Tatooine. Aveva già visto i due soli cambiare colorazione nell’atmosfera, danzare fra loro fino ad abbandonare lentamente il palcoscenico del pianeta, spegnendo lo spettacolo del giorno. Era una delle cose più belle che gli era capitato di vedere nella sua vita e pensava che fosse davvero ironico che tutto ciò accadesse proprio lì, in quel buco morente schivato da tutti.
Quella notte il cacciatore di taglie ripensò alle parole del Lurmen. Aveva ragione, doveva ammetterlo. Quei predoni avrebbero potuto benissimo lasciarlo morire lì dopo avergli strappato l’armatura di dosso o, ancora peggio, ucciderlo prima di impossessarsene. E invece no. Lui non ci avrebbe mai scommesso nemmeno un credito ma evidentemente in alcuni di loro dimorava il concetto di morale. Una sorta di senso dell’onore certamente molto rozzo e ancora da raffinare. Ad esempio bisognava far comprendere loro che i patti vanno sugellati tra le parti contraenti in comune accordo, ma era pur sempre un inizio per cominciare il cammino sulla strada della civiltà.
Passò qualche giorno all’accampamento Tusken. Le ferite di Boba miglioravano e nell’attesa di rimettersi del tutto cominciò ad osservare da lontano i suoi ospiti, spesso seduto su un ceppo secco posto all’ingresso della propria tenda. La vita di questa tribù in particolare era dedita alla caccia e alla ricerca di qualcosa di utile da poter scambiare in giro per i piccoli insediamenti sparsi su Tatooine. Addestravano i Bantha che usavano come mezzo di locomozione, ma questa era una caratteristica comune a tutti i Tusken. Non aveva mai visto da vicino quelle bestie. Non perché non gli fosse capitato, semplicemente perché non gli era mai interessato. Ma in quei giorni di stasi la curiosità per quegli animali cominciò a farsi largo nei suoi pensieri. Fu a causa di ciò che ad un certo punto si avvicinò al recinto in cui erano tenuti. Da un particolare pendaglio posto sulla cintura del guardiano si rese conto che si trattava dallo stesso predone con cui aveva avuto qualche giorno prima uno scontro silente. Aveva notato che tutti i Tusken erano tenuti ad adempiere al compito di sorveglianza dei Bantha, secondo un certo criterio di rotazione delle mansioni che vigeva nell’accampamento. Vi era anche un piccolo gruppo di predoni riunito che dialogava vivacemente, in quella loro stranissima lingua gutturale. Fett si domandava come facesse il Lurmen a capirci qualcosa. Mantenendo il suo fare austero si appoggiò allo steccato. La cosa sembrò non piacere al guardiano, seduto più in là, oltre il gruppo. Egli infatti si voltò verso il cacciatore di taglie, cercando di attraversare con lo sguardo quella riunione di suoi simili per meglio tenere d’occhio il clone. Non avendo una buona visuale, il predone si alzò di scatto e lo raggiunse di gran fretta facendosi strada fra il gruppetto di Tusken con il suo bastone gaffi. Gli si parò davanti apostrofandolo da molto vicino con i suoi versi incomprensibili. Fett irritato gli disse in Basic che non capiva cosa volesse e, quando il guardiano cominciò a pungolarlo insistentemente col bastone, lo allontanò da sé spingendolo. Il predone si fermò un attimo. Non si aspettava una reazione così decisa. Passò immediatamente all’attacco: sferrò un colpo con l’estremità del bastone in direzione del volto di Fett, il quale lo evitò facilmente parandosi con l’avambraccio. Seguì immediatamente un nuovo attacco più basso con l’altra estremità dell’arma, anch’esso parato con l’altro braccio. A quel punto Boba assestò un montante allo stomaco del predone, il quale si piegò per il dolore. Nel frattempo, il gruppo aveva cominciato ad esultare facendo un tifo estremamente rumoroso. Il predone si gettò caricando con la testa contro il cacciatore di taglie, in un punto omologo a quello in cui era stato a sua volta colpito. Boba accusò il dolore ma si limitò ad indietreggiare senza cadere. Il Tusken ci riprovò ma stavolta venne fermato dal cacciatore di taglie, il quale riuscì ad evitare parzialmente l’impatto spingendo l’avversario di lato. Fett rimase per pochissimi secondi in disparte, tenendosi la ferita che si era riaperta sul lato del busto da poco colpito, quando il predone tornò alla carica. Boba ne aveva abbastanza: quando giunse a distanza ravvicinata gli strappò con forza il bastone dalle mani, scansandosi di fianco per consentirgli il continuo della corsa. Nello spazio di tempo che l’indigeno impiegò a voltarsi, Boba fece una giravolta su sé stesso colpendo con forza il rivale sul lato del volto con la mazza. Il rumore del colpo fu così forte da risuonare nell’accampamento, fra i Tusken che nel frattempo erano accorsi ad assistere alla lotta. Il guardiano stramazzò a terra esanime. Le esultanze tacquero e ora tutti guardavano l’esito dello scontro increduli.
Boba Fett si era appoggiato ansimante al bastone. Si toccò la ferita sul lato e abbassò lo sguardo vedendo la mano impregnata di lucente sangue rosso. Intanto il capo era sopraggiunto facendosi strada tra la piccola folla. Guardò prima Boba, poi il guardiano steso al suolo. Cominciò a dialogare con i presenti, i quali gli rispondevano concitatamente facendo largo uso dei gesti. Nel frattempo, era accorso di gran fretta Gor Sin, il quale si era avvicinato al cacciatore di taglie. «Ch’è successo?» chiese il vecchio Lurmen osservando incredulo la scena. «Dovresti chiederlo al tizio steso a terra. Ha cominciato ad aggredirmi senza motivo». Il capo Argonsis rimase per qualche minuto fra i suoi, ascoltandoli attentamente e rivolgendosi a loro ponendo quelle che sembravano essere delle domande. Poi si rivolse a Kaa nella propria lingua. «Cosa accidenti sta dicendo?» chiese Fett al Lurmen con un tono di voce che mal celava l’affaticamento della lotta che ancora accusava. Gor Sin gli rispose alternando lo sguardo fra il cacciatore e Sagapat, come se fosse in cerca di conferma della correttezza della traduzione: «Il capo ha raccolto le testimonianze di coloro che erano presenti all’inizio dello scontro e, essendo tutte corrispondenti ad un’unica versione, è giunto ad una decisione che possa porre fine alla vostra diatriba». «Digli che non intendo sottostare alle sue decisioni. Per quanto mi riguarda può andarsene», così dicendo si accinse ad allontanarsi. «Credo che dovresti comunque ascoltare, Fett». Il cacciatore di taglie si fermò e si voltò sbuffante, permettendo al Lurmen di continuare. «Sagapat dice che risulta essere chiaro che Forek, il predone con cui hai lottato, era nel torto. Chi lo difende dice che probabilmente avrà dubitato di te pensando volessi rubare un Bantha vedendoti nei pressi del recinto. Il capo non crede a questa versione, questi animali non sono abbastanza veloci per poter essere rubati in pieno giorno sotto gli occhi di tutti, quindi ipotizza che ci sia stata mala fede nelle sue azioni, forse guidata da un pregiudizio verso gli estranei. Inoltre, tu lo hai battuto in una lotta impari, in cui eri sia disarmato che ferito. Secondo le usanze degli Argonsis, in caso di lotta, lo sconfitto deve cedere una propria arma al vincitore. Hai quindi diritto a tenere il suo fucile. Ma dato che l’attacco è stato ritenuto ingiustificato, il capo ti concede di prendere anche il suo bastone gaffi». Boba guardò dubbioso Kaa. «Non so cosa farmene di quel bastone ma il fucile mi tornerà utile. D’altronde mi sembra anche il minimo che possano fare…». Il Lurmen tradusse diplomaticamente affermando che il clone accettava il verdetto e, quando Boba si voltò per tornarsene nella propria tenda, lo seguì per controllarne le condizioni di salute. «Ne ho abbastanza di questa storia. Ah, digli di non pensare che abbia messo una pietra sopra alla questione dell’armatura». Di nuovo Kaa tradusse il tutto con un cortese ringraziamento.
Nei giorni successivi le condizioni di Boba migliorarono velocemente e con esse anche i suoi rapporti con la tribù. I vari Tusken, nelle occasioni in cui venivano a contatto col cacciatore di taglie, dimostravano sempre una velata ammirazione per quell’uomo che, acciaccato e disarmato, era riuscito a stendere un predone armato e in perfetta forma. Fett cominciò a contribuire al mantenimento dell’accampamento dedicandosi a qualche piccolo lavoro che non compromettesse la sua riabilitazione fisica, spinto forse più da noia che da bontà d’animo, o almeno sicuramente era quello che voleva lasciar intendere. Venne anche invitato a partecipare alle cene di fronte al fuoco tribale. Aveva sempre rifiutato ma una di quelle sere, non sapendone nemmeno il motivo che lo spingesse a farlo, decise di accettare. Quell’occasione gli fece rendere conto di quanto le parole di Kaa fossero corrispondenti al vero: anche in quella dei Tusken, come in ogni razza, esistono esseri da cui uno farebbe bene a guardarsi attentamente le spalle, ma anche altri meritevoli di fiducia. Quella sera capì che gli Argonsis facevano parte di quest’ultima categoria. Persino quel Forek che lo aveva aggredito, riconobbe quanto la sua aggressione fosse stata ingiustificata. Ad un certo punto si avvicinò al cacciatore di taglie porgendogli goffamente la mano. Dapprima Boba non capì il gesto. Non aveva mai visto fare un’azione del genere a dei sabbipodi, in realtà non credeva neanche che sapessero cosa tale atto significasse per i mondi civilizzati. Guardò Gor Sin con fare interrogativo, sperando dentro di sé che il predone non fosse ancora in cerca di guai e, quando il Lurmen gli confermò con un leggero sorriso le buone intenzioni del Tusken, Fett guardò la mano e la strinse non troppo vigorosamente. Forek fece un cenno di approvazione con la testa e riprese il suo posto attorno al fuoco.
I due soli avevano da poco cominciato a sorgere nei cieli di Tatooine spazzando l’oscura notte con fendenti di luce, i quali pian piano ridonavano colore alla volta celeste. Un raggio attraversò un piccolo foro nella tenda colpendo Kaa in volto, il quale si svegliò con calma stropicciandosi gli occhi. Quasi subito si rese conto che il suo momentaneo coinquilino aveva già abbandonato il proprio giaciglio. Si voltò verso un lato della piccola dimora in pelli e vide l’ombra di Fett che vi si stagliava fiera. «Oggi sei particolarmente mattiniero, mandaloriano…» disse il Lurmen che da poco aveva fatto capolino dalla tenda. Boba gli dava le spalle e, sentendo la voce del piccolo amico, volse il viso leggermente di lato per poi tornare a guardare in direzione dell’alba. «Oggi parto» disse il cacciatore. «Mm… Capisco» rispose lentamente Gor Sin. «Se ho ben capito il Palazzo di Jabba è troppo lontano da qui per essere raggiunto a piedi. Dovresti chiedere al capo di portarmi con un Bantha al primo avamposto disponibile. Da lì sarò in grado di cavarmela da solo». Sagapat, a parte il giorno del suo primo dialogo con il cacciatore di taglie, non aveva più espresso la volontà che egli abbandonasse il prima possibile l’accampamento. Quando ricevette la notizia da parte di Kaa la accolse neutralmente, dicendo ai suoi di sellare un Bantha. I preparativi furono veloci. Boba ringraziò Gor Sin mantenendo la flemma che lo contraddistingueva. «Ti devo la vita Lurmen. Un giorno saprò sdebitarmi», disse mentre si arrampicava sul goffo mezzo di trasporto usato dai Tusken. «Va per la tua strada mandaloriano. Ti auguro di trovare ciò che cerchi. Spero di rincontrarti un giorno», rispose Kaa. Boba lo salutò con cenno del viso e partì assieme al capo ed un altro sabbipode, in direzione dei soli nascenti. Portava con sé sia il fucile che il bastone gaffi.
In mezza giornata giunsero in un punto in cui si poteva notare, senza essere visti, la presenza di minuscolo avamposto di cui Fett ignorava il nome. I Tusken preferivano non farsi vedere da quelle parti per evitare problemi, quindi comunicarono a Boba tramite gesti che per loro il viaggio di andata finiva lì. Il clone scese dalla groppa dell’animale e alzò la mano in cenno di saluto, un cenno che qualcuno avrebbe potuto magari interpretare anche come un ringraziamento. Sagapat rispose anch’egli alzando la mano ed emettendo un breve e deciso grugnito che Boba immaginò essere l’equivalente di un addio nella lingua Tusken. I due voltarono il Bantha e lentamente si allontanarono, lasciando che l’inconfondibile traccia della lunga coda dell’animale segnasse le dune.
Boba raggiunse velocemente l’avamposto e non ebbe problemi a convincere uno spaventato Sallustiano a dargli un passaggio con il proprio speeder XP-38 tenuto egregiamente. L’alieno guidava con un evidente timore che andava crescendo man mano che si avvicinavano alla loro destinazione. Tutti su Tatooine sapevano chi fosse Jabba The Hutt, ma non tutti erano già venuti a sapere che d’ora in avanti si sarebbe dovuto parlare di lui al passato. Quando Boba intravide la cupola della torre principale della sede del signore del crimine di Tatooine, disse al conducente prima di rallentare, poi di fermarsi. Saltò agilmente giù dallo speeder e, mantenendo lo sguardo sull’imponente costruzione poco lontana, disse al Sallustiano che poteva andare, il quale non se lo fece ripetere due volte e sfrecciò via. Si avvicinò all’enorme portone, abbastanza per percepire un’assordante assenza di vita in quel luogo. Era ormai scomparsa quella vivace agitazione che un tempo i viandanti percepivano attraverso un brivido lungo la schiena nel momento in cui udivano il miscuglio di versi emessi dalle bizzarre creature che popolavano il Palazzo di Jabba. Decise di non entrare. Al momento non era quello il suo interesse principale. Doveva tornare operativo, incassare qualche taglia e raccogliere informazioni su dove fosse finita la sua armatura mandaloriana. “Dannazione, potrebbe essere ovunque. Potrebbe averla comprata un qualunque viaggiatore di passaggio. Per i Jawas contano solo i crediti”, pensò fra sé e sé mentre aggirava il palazzo. Giunse all’ingresso di un’enorme insenatura, così alta e profonda da non permettere alla luce naturale di illuminarne completamente il fondo. Non ci volle molto prima che la vide: la sua nave, la Slave I, esattamente dove e come l’aveva lasciata. Aveva certamente i suoi anni, ma per lui rimaneva la migliore nave che avesse mai visto nella galassia. Un sistema di riconoscimento biometrico posto sulla fiancata fece aprire l’ingresso sul retro. Entrò e si sentì a casa. Si sedette ai comandi e, riflettendosi nella vetrata della carlinga, non poté far a meno di soffermarsi un momento sulle cicatrici che ora solcavano il suo volto. I motori si avviarono con un rombo, la nave si alzò lentamente in modo da non urtare le pareti verticali del canyon e, ponendosi nella tipica posizione di volo verticale, sfrecciò verso la volta celeste.
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