Tunisia & Sinai: alla ricerca di Tatooine
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Due
esperienze di viaggio diverse, due reportage alla scoperta del Medio-Oriente,
ovvero dei luoghi che George Lucas ha personalmente visitato, o da cui
ha tratto ispirazione per alcuni dei personaggi e luoghi della mitica
Saga. Raccontando ognuna la propria avventura, Emy a Matmata, luogo delle
“case troglodite” berbere, e Luisa nel deserto del Sinai, in realtà hanno
inteso condividere una visione e una ricerca comune a tutti gli appassionati
di “Guerre Stellari”, che almeno una volta nella loro vita, hanno desiderato
vedere e ‘respirare’ l’aria del mito, o comunque le terre e le atmosfere
da dove tutto ha avuto inizio . MATMATA, ovvero un pezzo di Tatooine (di Emy Angelini)
Immaginatevi
montagne dall’incredibile colore rossiccio, erose dal vento e dagli insediamenti
dell’uomo, un mare di sabbia con creste d’oro, passi felpati di cammelli
nel deserto incontaminato, orizzonti sterminati, e tramonti rossi come
fuoco. Ecco
come potrei descrivere in poche parole la Tunisia, ma c’e un posto, un
luogo magico che regala sensazioni uniche e che, a mio modesto parere,
ha la bellezza intatta del passato, che regala l’invidiabile sensazione
di essere catapultati direttamente sul suolo di Tatooine: Matmata! L’escursione
comincia all’alba, anche perché qui, sebbene sia ottobre, il caldo è sempre
implacabile. Si arriva nella località di Matmata, attraversando
lande desolate, dove si ergono monti color ocra disseminati da poche palme:
il luogo insomma dove scorrazzavano i pacifici Jawas, e i terribili Tusken. L’orizzonte
infinito, il cielo azzurro e cristallino, la sabbia sotto i piedi dorata
e impalpabile come talco, regalano già la magnifica sensazione di pura
liberà, ma... dov’è il paese? Dove sono queste cosiddette abitazioni “troglodite”? Fatti
pochi passi, ecco svelato il mistero: i Berberi, laboriosa popolazione,
ha dissimulato le proprie case, scavando crateri che danno vita ad un
vero e proprio paesaggio lunare... unico nel suo genere, e credo unico
al mondo. E
l’immaginazione comincia a cavalcare: eccomi catapultata nella lontana
e desertica Tatooine! (fra l’altro, sempre da queste parti, c’è davvero
una località che si chiama Tataouine N.d.R.) All’improvviso
rivedo scenari familiari: Luke che si sporge dal baratro a parlare con
la zia Beru prima di acquistare al mercatino dei Jawas i mitici “droidi”
che poi diverranno suoi inseparabili amici... Ci
apprestiamo quindi ad entrare in un’abitazione. Attraverso
un piccolo “corridoio”, scavato sul fianco laterale delle ondulazioni
del terreno, si accede alla corte centrale, dove appunto si aprono le
tante porticine che danno l’accesso ai locali della casa. Di
fianco ad un ingresso, spicca in grosse lettere “Mos Eisley cantina”,
leggerlo mi da un brivido improvviso, e mi immagino le truppe d’assalto,
nell’affannosa ricerca dei “nostri” in fuga. All’interno del locale, c’è
davvero un piccolo bar... avranno girato qui le scene dell’incontro con
quella simpatica canaglia di Han? Come
non poter pensare a lui, Luke, e soprattutto il mitico Kenobi, impegnati
in queste lande desolate a combattere gli attacchi dell’Impero... ...Ecco
dove abitava Luke, e anche Anakin. E’
proprio un posto speciale, incredibile, lontano dalla nostra realtà, quasi
fosse davvero su un altro pianeta... Roba
da agitarsi, solo per l’emozione. Qualcosa
nell’aria si percepisce, quasi fossi improvvisamente dotata dei mistici
poteri Jedi... Guardare
il cielo azzurro, screziato da nuvole leggere ed inconsistenti come fumo,
dall’interno di una di queste “buche” è ipnotizzante... E
quando si sale e ci si ritrova al livello del suolo, è inevitabile gettare
uno sguardo alla linea sottile e irraggiungibile dell’orizzonte, mentre
il sole implacabile inizia il suo declino. Ormai
sei così conquistato dal luogo, e così tanto coinvolto nella fantasia
che ti rammarichi quasi, del fatto che ci sia un unico sole qui, e non
due, come quelli che brillano nell’immaginaria Tatooine. Ed
è ora di mangiare qualcosa! Sempre
assistiti dall’impeccabile staff del Tour operator, veniamo accompagnati
all’interno di una “abitazione”, adibita ad albergo/ristorante, al cui
comfort si unisce l’originalità di queste dimore berbere. Il
tempo passa in un baleno, e quando il pullman viene a prenderci, per riportarci
nel paradiso dorato del nostro “resort” un po’ mi si stringe il cuore. Ma
c’è tempo per una piccola sosta ancora; ci fermiamo infatti ad osservare
un fantastico panorama, da un’altura che sembrerebbe messa apposta, per
godere al massimo questo spettacolo incomparabile. Il
sole è ormai scomparso oltre l’orizzonte, ma tinge ancora il cielo di
una luce che solo in queste latitudini si può osservare: la desertica
distesa dinanzi a noi è un susseguirsi ondulato di colline modellate dal
vento, i cui colori spaziano dal dorato all’arancio, dal bruciato al rossiccio,
disseminate da rade e sporadiche tracce di vegetazione. L’aria
è pura e leggera, lo spazio infinito non rivela nulla, salvo l’immensità
del vuoto...ma il vuoto diviene sensazione, ti avvolge ti ammalia, ti
attira. E
la fantasia si fa strada nei tuoi pensieri, così tanto da essere certi
che laggiù, oltre queste colline rocciose si estenda il Mare delle Dune,
la casa di Obi-Wan, oppure il Beggar’s Canyon, dove Anakin sfrecciava
spericolato a bordo del suo podracer... No,
non è difficile immaginarlo, anzi ti senti così calato in quel mondo,
che ti aspetti quasi di essere assaltato da un Tusken, in groppa al suo
bantha... E
poi... la bellezza pura e quasi selvaggia di questo sito, ha qualcosa
da regalarci ancora. Non ci credevo, non me l’aspettavo. Ormai
è notte, quando rientriamo. Seduta sul pullman, osservo quest’ulteriore
spettacolo unico e ipnotizzante, dal finestrino: la volta del cielo stellato,
una sorta di velluto nero, tempestato da così tante stelle, da sembrare
irreale. Solo
qui, nel deserto, lontano dai centri luminosi, lo si può ammirare in tutta
la sua bellezza... ...e
sentirsi veramente liberi, con la mente, con il pensiero e l’immaginazione... Ecco
il cielo che guardava Anakin, insieme a Qui-Gon; ora capisco il desiderio
di libertà che ardeva nel ragazzino e la voglia, forse infantile, di poter
visitare tutte... quelle stelle. Effettivamente,
osservando rapiti con il naso all’insù , è naturale porsi la domanda...”Ma
quante sono le stelle? Si potrà un giorno visitarle, tutte quante?” La
verità è che, dopo aver visitato questi luoghi, niente ti sembra più come
prima e non ti pare nemmeno sciocco pensare e sorridere all’idea che forse
laggiù, nel buio profondo dello spazio infinito, in una galassia lontana...lontana,
c’è un piccolo, sperduto e desertico pianeta, illuminato da due stelle
gemelle. SINAI: il misticismo del deserto (di
Luisa “Lys” Monnet) (una località ‘diversa’, ma un obiettivo comune) Se
all’articolo precedente aggiungo quest’excursus, questo percorso che mi
ha condotto fin alla punta estrema del Sinai, lo faccio, intanto per onorare
l’incredibile fortuna (ossia l’eccezionale generosità di un’amica) che
mi ha permesso di vivere quella settimana in un altro luogo, in un altro
tempo che con le mie sole forze non avrei mai raggiunto, e poi perché
spesso la verità di un mito, di una suggestione potente come quella creata
dai personaggi e luoghi della Saga, giace dietro altre verità. Il viaggio,
l’esperienza, le persone incontrate appartengono a un’altra terra, ma
la visione finale non è stata diversa, un concetto che solo alla fine
della settimana, in una sera di luna crescente, ho realizzato appieno,
immersa nei suoni, nei profumi e nelle lunghe vie bianche di una cittadina
ai confini del deserto. Da Sharm El-Sheikh ai porti di Mos Eisley e Mos
Espa la strada è meno lunga di quanto si pensi! LE
MONTAGNE ROSSE Eppure...
un momento prima di entrare in quella che sarà la nostra prigione dorata,
un dominio di edifici bianchi, di casette collegate da innumerevoli e
ordinatissimi viali dislocati a schiera verso il Mar Rosso che si apre
dietro di essi, un momento prima di varcare la soglia della hall, unico,
solido blocco del villaggio turistico, c’è qualcosa che ci fa voltare
dietro di noi. Non abbiamo visto molto arrivando con il pullman se non
la linea dritta della strada, poche palme, un’infinità senza nome di piana
sabbiosa, ma le suggestioni ancora misteriose che porta ancora con sé
le cogliamo tutte in quell’attimo. Siamo a pochi chilometri dall’aeroporto
che abbiamo lasciato e facciamo in tempo con quell’unica occhiata a scorgere
un aereo che si allontana, gigante solitario nell’aria ferma e solenne
della sera ormai avanzata; le montagne si chiudono sotto di lui, compatte
e maestose, avvolte dal loro sole scarlatto, dal deserto che scherza con
le loro forme, avvolgendole di piccoli mulinelli di sabbia. Ci
sono piccole strade che si perdono all’interno di quella vastità, le guardo
con una sensazione indefinibile: abitano forse lì i famosi Tusk.... ehm,
i beduini del deserto? AFRICA
O ASIA?
Non
appena riusciamo finalmente a scambiare qualche parola con i ragazzi dell’albergo
o con le guide che sono venute a prenderci, nell’imminenza della nostra
prima, agognata escursione nel deserto, impariamo qualcosa di nuovo. Ce
lo ripeteranno spesso nel corso della settimana: ci troviamo in Asia,
in effetti molte persone che vivono nel Sinai, protettorato dell’Egitto,
considerano questa una terra a sé, non un pezzo della sorella Africa,
ma un pezzo di quell’Oriente molto più lontano. E
poi, finalmente, avvolti dalla calda luce del pomeriggio che muore, scorgiamo
alla tappa di partenza figure quasi nascoste dalla sabbia di cui hanno
lo stesso colore. Accovacciati, pacifici e sovranamente indifferenti a
coloro che trasporteranno, i dromedari ci aspettano, guardati a vista
dai loro custodi, ragazzi e ragazzini vestiti dell’abito del deserto,
tunica e lunghi foulards per proteggere naso e bocca dalle folate di vento
caldo. Il
set si anima, vero e vitale come uno scenario lucasiano: la parte principale
e poco edificante tocca a noi, goffi pionieri occasionali di quella fetta
di deserto, che ballonzoliamo dignitosamente a ogni passo cadenzato del
nostro compagno bantha. In effetti, da principio l’anima pavida
e poco malleabile da turista impera sui nostri sguardi e soprattutto -
ahimé - sulle nostre gambe, non avvezze alla rude ginnastica del passo
simmetrico dei dromedari: le due gambe sinistre si muovono insieme e lasciano
il posto a quelle destre.... i “Camminatori” delle nevi di Hooth erano
sicuramente più comodi da guardare! Immersa in questi pensieri sconfortanti
lascio scivolare dietro di me venti minuti buoni di passeggiata senza
effettivamente vedere nulla. Ma
il deserto è paziente, non ha fretta: poco a poco, trovata la sintonia
del passo, mi lascio andare in sella al dromedario e finalmente i miei
occhi perdono di vista il pomello infisso sulla sella, che mi impedisce
di scivolare a terra a ogni passo. Non vedrò mai più uno spettacolo del
genere, mi rendo improvvisamente conto: intorno a me le montagne sfilano
come un nastro continuo, aquile di roccia dal profilo acuto, mentre il
passo del dromedario segna la sua impronta sulla sabbia rossiccia del
Sinai. I ragazzi che conducono gli animali a passo di lumaca (probabilmente
hanno paura che con qualcosa di appena più veloce si perderebbero qualche
turista per strada!) variano dagli otto ai quarant’anni anni di età e
le voci dei più piccoli si levano come canti di uccellini mattutini, accompagnando
i dromedari e quelli che vi stanno sopra con battute e risate tanto più
affascinanti perché comprensibili a loro solo. Ogni
escursione, ogni viaggio nella terra di nessuno ha la sua fine e questa
si materializza, improvvisa, in uno spiazzo isolato, vuoto e privo di
qualunque abitazione, o tetto, o riparo. Qualcosa di estremamente intonato
con quanto visto finora; con rapidità ed efficienza le guide improvvisano
una vera tenda beduina con pochi tappeti, cuscini e una corta tettoia
sotto la quale verrà preparato il tè arabo e la nostra cena. Non rimane
molto altro da fare: un’ultima, avida occhiata alle montagne, nostre silenziose
e costanti compagne, che svettano più presenti e incombenti che mai, ora
che il sole prossimo al tramonto le fascia piano piano di un’oscurità
argentata. La cena nel deserto, boa di passaggio della nostra escursione,
viene consumata rapidamente, alla luce di torce improvvisate; quanto ha
di più bello, il deserto lo regala nel buio e nel silenzio. Una volta
ottenuti entrambi non occorre altro: abbiamo dimenticato il semplice rito
della comunione, penso, della condivisione dei beni, che qui si manifestano
sotto il segno di un cielo stellato di una purezza come non ne abbiamo
mai veduti, nemmeno in montagna, e come non ne vedremo mai fuori dal deserto.
È un panorama di una bellezza così sconvolgente che toglie il fiato a
tutti e per qualche breve attimo riusciamo a diventare parte integrante
del deserto: non più stranieri indifferenti e irriverenti, ma persone
fatte solo di ascolto e di sguardo, per una sera. (<Mind
tricks don’t work on me, only money!>) Il
gioco dei contrasti prende corpo e anima nel villaggio dove ogni sera
la navetta dell’albergo ci scarica, insieme ad altre centinaia di turisti:
Naama Bay, un’immensa “negoziopoli”. Case su case, strade su strade di
negozi, più o meno ordinatamente allineati su lunghi viali bianchi, secondo
l’importanza, la grandezza e la brillantezza della merce esposta. L’occhio
del turista si perde tra centinaia di vetrine di gioielli, profumi, tappeti,
cartigli e papiri egiziani, colori e incensi, narghilè e prodotti tipici
dell’artigianato e dell’oreficeria locale. Ce
ne rendiamo conto dopo la nostra prima visita: siamo approdati nella terra
di Watto, i suoi cugini sicuramente abitano e commerciano qui, i piccoli
e avidi Jawas dovevano venire qui ad acquistare pezzi di ricambio e qui
gli agricoltori di Tatooine venivano a bersi un buon tè e a fumare la
pipa. La password di accesso a questo mondo è la contrattazione, come
in tutti i paesi del Medio-Oriente, una forma di scambio, di cortesia
professionale che non può essere ignorata. Lo spirito del guadagno che
anima questo posto ne ha fatto un contenitore di cliché commerciali, che
vanno dalle insegne di MacDonald’s all’immenso Casinò che domina all’inizio
del villaggio: ogni singola costruzione, ogni ristorante, ogni albergo
meriterebbe una foto a parte per la sua complessità, per l’originalità
delle sue camere e delle sue insegne che alla fine lo rende esattamente
uguale a tutti gli altri. È
solo alla terza e ultima visita a Naama Bay, prima della nostra partenza,
che le poche case abitate senza negozi, le piccole Casbah locali, il profumo
della cittadina, carico dei mille profumi orientali, il vocio di mille
lingue diverse, la musica delle radioline sui pullman e sui taxi mi vengono
incontro avvolgendomi in una musica e in una visione potente e suggestiva.
Ho la fortuna di realizzare tutto questo ancora una volta al crepuscolo,
come il giorno in cui sono arrivata: c’è una pallida luna bianca, sdraiata
sul dorso, a riposare sull’Equatore non lontano, sopra le bianche strada
di Naama Bay; l’aria è carica di una dolcezza mite che mette le ali ai
miei piedi, che si muovono solitari in mezzo alla folla di turisti vocianti. La
“galassia lontana lontana” di George Lucas probabilmente è a tre ore di
aereo dall’Italia _ Dedicato
a Paola “Jinna” senza la quale questo viaggio non avrebbe avuto luogo |