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Il revisionismo di George Lucas
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di Matteo Foà e Fiorenzo Delle Rupi |
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20 anni. È il 1997 e i "vecchi bambini" degli anni ’70 si stropicciano gli occhi. Ma è vero? Ritorna? Voci. E poi conferme. E nuovi dolci discorsi fatti di ricordi e di futuro. Perché poi, ormai è certo, arriverà un nuovo film. Anzi no, una nuova Trilogia.
"Era tutto vero, allora!", gongolano nel proprio intimo i bambini degli anni ‘70.
Non lo ammettono tutti con facilità, ma rifare la fila alla cassa pervasi da quella dolce agitazione allo stomaco, da quella trepida e impaziente attesa che nulla ha a che spartire con la rassegnata razionalità di un uomo adulto, è un dono insperato. Un sapore disperso nel tempo e dimenticato chissà dove, e ora così vivo e straripante. "Grazie Lucas!". La risposta dei bambini degli anni ’70 è unanime e inarrestabile. E non solo la loro. Tre film uno dopo l’altro, tutti in un mese, sale stracolme. E King George che ricomincia a contare nuove montagne di dollari in entrata. Già, dopo tanti anni di idee e mode passate più o meno fugacemente sotto i ponti, Guerre Stellari ritorna e pare rinnovare, con snobistica facilità, una leadership rimasta celata solamente da una lunga assenza autoimposta.
Accade che i più grandi elogi siano indirizzati al lavoro di restauro e rimasterizzazione. E a buona ragione. L’operazione, oltre a determinare uno scontato successo commerciale e la nascita di una nuova "covata" di adepti, permette di consacrare l’intera Trilogia, definitivamente e agli occhi di tutti, come patrimonio culturale e artistico in senso assoluto.
Suscitano immediata meraviglia anche i tanto attesi arricchimenti digitali pubblicizzati in fase promozionale. In tal senso, va considerato il naturale fascino della novità, unito a un impatto cinematografico che ne amplifica enormemente la portata.
Tuttavia, già da questo momento, tra i cori di assenso comincia a fare capolino qualche nota stonata. Che, naturalmente, non può non provenire dalla schiera degli appassionati più attenti e critici. Si tratta di considerazioni che, prendendo le mosse da contenuti tecnico/estetici per tradursi in riflessioni di concetto sull’intera Saga, sono destinate ad assumere contorni ancor più decisi con l’uscita in VHS della Special Edition, le cui ripetute visioni permettono disamine ancor più approfondite.
Ora, a un anno dall’uscita di The Phantom Menace, tra le fila di molti fans ha iniziato a serpeggiare una considerevole inquietudine, progressiva ed inesorabile, simile ad un puzzle i cui pezzi sono sparsi nel tempo, dagli alti e bassi localizzati in Return of the Jedi per passare dalla Special Edition fino ad arrivare ai giorni nostri, a Episodio I e alle speculazioni sui capitoli futuri.
Il centro unico ed esclusivo di questa inquietudine, manco a dirlo, è George Lucas. E con lui, il presunto atto di "revisionismo"che avrebbe perpetrato nei confronti della sua creazione. O per meglio dire, nei confronti di alcuni di quei punti cardine che ne hanno determinato la peculiarità e il successo. Nella circostanza parliamo dei personaggi, in riferimento non tanto al loro ruolo narrativo, ma soprattutto a quello "caratterizzante". Come ci erano stati proposti nella Trilogia classica? Archetipici, certo: il mago, la principessa, gli incantesimi, il cavaliere nero, il cow boy e i gangsters. Ma rielaborati in una veste assolutamente nuova e, soprattutto, permeati da connotazioni morali mai nitide. Tutti partono da un’imperfezione di fondo, per poi compiere delle scelte in modi, direzioni e tempi diversi. Ciò che piace di essi è il loro essere autenticamente uomini, esemplari in potenza ma non nei presupposti. Tralasciando l’eclatante esempio di Vader, possiamo pensare a Leia, decisa ma tendenzialmente nevrotica e sentimentalmente problematica. A Luke, predestinato ma ancora inesperto e spesso impacciato. Al suo mentore Obi-Wan, saggio maestro dal passato costellato di errori e superbia. E ancora a Han Solo e Lando Calrissian, idealisti nel profondo ma ancora legati a una vita fatta di cinismo e opportunismo. Una "miscela" rivelatasi, di fatto, quanto mai vincente. Ma che, dopo vent’anni, Lucas ha sentito la necessità di riproporci in termini a dir poco rivoluzionati.
Perché, in A New Hope, ci ritroviamo il cacciatore di taglie Greedo che spara per primo a Han Solo? E’ forse, questo, l’esempio più limpido della manipolazione concettuale attuata da Lucas, ancor più evidente perché coinvolge una delle scene "istituzionali" della Saga. E’ l’entrata in scena del contrabbandiere condotto al mito da Harrison Ford, e lui più di tutti ha una strada lunga da percorrere: contrabbanda spezie (presumibilmente l’equivalente della nostra droga), chiacchiera a quattr’occhi coi gangster e coi cacciatori di taglie, e se prende a bordo quel gruppo strampalato composto da un vecchio pazzo, un moccioso e due droidi squinternati lo fa soltanto per i soldi. In una galassia cinematografica dove, in mezz’ora di film, tutti fin troppo in fretta si stanno schierando a favore o contro il "malvagio Impero Galattico", Han Solo ci mostra "l’altra" galassia: quella che si fa gli affari suoi. Cinica, pragmatica, impervia a ideali e a codici d’onore. Nel mondo del crimine di Star Wars, dove riportare a casa la pelle a fine giornata è già un trionfo, Han Solo non si fa scrupolo a sparare di nascosto da sotto un tavolo al maldestro cacciatore di taglie rodiano che sperava di sopravanzarlo in astuzia.
Lo sappiamo bene che non va a finire così: che poi, in qualche modo smosso dalla fede cieca ma incrollabile di un ragazzino, dalla fermezza fin troppo ostinata di una principessa e dal sacrificio finale di un vecchio, Han Solo finirà per abbandonare la via del profitto e della scelta "più furba". Ma l’urlo di trionfo con cui salva la vita a Luke nel canale della Morte Nera è tanto più esaltante quanto è lunga la strada che ha percorso per arrivare a quella svolta. Lo spettatore gioisce e si entusiasma se vede che la causa per la quale tutti i piloti ribelli stanno dando la vita, dal primo all’ultimo, ha finito per coinvolgere anche il più incallito dei cinici, anche quello che sparava agli alieni da sotto i tavoli.
Ma se Han Solo non è poi questo mascalzone fin dall’inizio... Se è tutto sommato un giovanotto sveglio ma fondamentalmente onesto che ha solo l’accortezza di tenere la pistola sfoderata sotto il tavolo, ma che aspetta che sia l’altro a fare fuoco prima di usarla (il solo aver messo in sequenza i due concetti ne evidenzia l’assurdità logica), allora l’"inaspettata conversione" finale non rappresenta più questo grande shock emotivo. Risultato finale: la figura di Han Solo ne esce più intonsa moralmente fin dall’inizio... Il pathos narrativo del film ha appena perso qualche grado di intensità. Primo indizio. Proseguiamo.
Perché, sempre in A New Hope, presentarci attraverso una evidente forzatura, la disarmonica versione di un simpatico Jabba digitale che nulla ha che spartire con l’icona, analogicamente efficacissima, dello spietato malavitoso che gli apparteneva? Perfino l’entrata in scena "graduale" del personaggio contribuiva a far crescere le aspettative al riguardo: nel primo film se ne fa il nome, nel secondo arrivano i suoi emissari, nel terzo lo incontriamo di persona. E non delude le aspettative: una massa opprimente e monolitica che sembra bloccare in ogni senso il cammino degli eroi della Saga, narcisista e pericolosamente capriccioso. Sfido chiunque, però, a rimanere intimidito quando, con gli occhi di C-3PO ed R2 D2, scoprirà che lo spietato Jabba non è altro che il non così possente vermozzo che abbozza stringendosi nelle spalle mentre il suo sgherro, Han, gli passeggia sulla coda. Secondo indizio: Jabba è più "a portata di mano", altri effetti speciali arricchiscono il già epico carnet di Star Wars. Ma un'altra porzione del pathos originario è andata perduta.
Perché, infine, in Episodio I il concetto mitologico starwarsiano di responsabilità e di colpa, specialmente per ciò che concerne la scelta di Obi-Wan nei confronti di Anakin, ma più in generale in rifermento a tutti i personaggi che ruotano attorno alla figura cardine del Chosen One, sembra latitare in maniera tanto evidente? Se in quest’ultimo caso è ragionevole aspettarsi delle risposte in futuro, la stessa serenità non è concessa altrove.
Le tracce puntano in una direzione ben precisa: è come se Lucas avesse disegnato una lenta e progressiva parabola che in vent’anni lo ha portato a uniformarsi alla maggior parte degli autori e dei registi di Hollywood, compiendo una sorta di conversione al "politically correct" tanto caro a certi suoi colleghi (e amici...). Come se lo Star Wars che tutti conosciamo fosse diventato un film "difficile".
Le cause possono essere ricondotte a una semplice evoluzione (?) di Lucas. Ma i più critici, forse i più lucidi, non possono esimersi dal pensare alle enormi pressioni a cui la Lucasfilm è stata, ed è, sottoposta da sponsor e aziende partners. Una bella spinta verso il redditizio mondo infantile è già evidente con la comparsa degli Ewoks nell’83. E le performances di stampo disneyano che si possono incontrare non di rado nella Special Edition e in Episodio I, dai robottini dispettosi di Mos Esley al cantante digitale del palazzo di Jabba, dalle evoluzioni di Jar Jar Binks ispirate a Jerry Lewis ai tic di Boss Nass, sembrano rappresentare una naturale e inevitabile espansione del percorso.
Pensiamo soltanto alla scena d’apertura di Star Wars: sparatoria all’ultimo sangue tra i Ribelli disperati che difendono la nave di Leia e gli interminabili Stormtroopers che la assaltano; tempo due minuti, e con l’entrata in scena di Darth Vader ci viene proposto lo strangolamento di un prigioniero inerme. Più "guerra" vera e diretta in pochi istanti di quanta ne vedremo nell’intero Episodio I, dove anzi ci si premura di tranquillizzare i bambini che lo scorretto ma simpatico Sebulba non è esploso col suo Pod Racer, ma è atterrato sano e salvo tra un cumulo di rottami. Insomma, Star Wars trasformato in una rasserenante culla per l’infanzia? Ad un colorato giocone per famiglie impressionabili? Forse tutto questo è eccessivo. Ma, stando a certi indizi, difficile non porsi delle domande.
Riportiamo la mente anche all’incruenta e asettica battaglia finale di Naboo, dove il concetto e la raffigurazione della morte e della paura sono completamente assenti. Dove i droidi da battaglia, anziché temibili killers tecnologici, sembrano essere il bersaglio facile e preferito di qualsiasi creatura vivente, Jedi, Gungan, guardia reale o premurosa ancella che sia. Sorge spontaneo, seguendo questo percorso, istituire un raffronto di stile e contenuti con l’invasione di Hoth in The Empire Strikes Back (e perché no, anche con l’intensissima battaglia di Yavin), ricavandone un senso di eterogeneità nettissimo. Che minaccia, nemmeno troppo velatamente, di assurgere a futuro simbolo di un’Esalogia dal sapore troppo marcatamente dicotomico.
La volontà di molti appassionati sarebbe quella di dare un senso e una spiegazione a una proposta nata coerente nello stile e nei contenuti ma persasi un po’, negli anni, attraverso le scelte e le rielaborazioni attuate dal suo creatore.
Le motivazioni di stampo commerciale sono evidenti. Ma possono essere sufficienti per vederci chiaro? Una potenza del calibro di George Lucas ha davvero bisogno di sottostare in toto alle leggi di mercato? Pare difficile.
Qualcuno dice "...ma se fosse questo lo Star Wars che Lucas aveva in mente fin dall’inizio?". Ovvero, tutto quello che per noi è stato il geniale frutto di un grande intuito, è in realtà il prodotto parzialmente involontario di una casereccia ed ingegnosa creazione artigianale dovuta a mancanza di soldi e tecnologia ad hoc? Dal punto di vista stilistico, questo quesito può avere una sua ragionevolezza. Anche se, in veste di adoratori di Star Wars, un’eventualità del genere sarebbe difficile da accettare. Ma nell’ottica della narrazione, della sceneggiatura, della caratterizzazione dei personaggi, non c’è spiegazione tecnologica che regga. I due aspetti, quello visivo e quello narrativo, si completano, si esaltano vicendevolmente, ma sono e restano, per la fortuna del futuro del cinema, indipendenti l’uno dall’altro.
Insomma, a tante domande corrispondono ben poche certezze, considerando anche il fatto che il nostro autore preferito non è mai stato famoso per la sua travolgente comunicabilità verbale.
Così, rimane una via. Ovvero, prendere in considerazione non più quello che c’è già, ma ciò che ancora manca.
Infatti, considerare Episodio I come il primo atto di una rappresentazione teatrale (parole di Lucas), ci può portare a intuire la futura trilogia come una narrazione che nella forma e nella sostanza evolverà, seguendo un vero e proprio climax, da un carattere fortemente infantile e puro, quello che si evidenzia in Episodio I (come osserva Filippo Rossi di "Cloud City"), in una fase finale di disincanto e sofferenza, dai connotati più realistici e ricchi di contrasti. Questa prospettiva sarebbe degna del miglior Lucas, e avrebbe carattere esaustivo per alcuni dei dubbi che attanagliano le tormentate menti dei fans.
Il condizionale è d’obbligo, perché ci muoviamo sempre e comunque all’interno di un vasto campo di ipotesi tanto verosimili quanto, per ora, prive di riscontro oggettivo.
Ma forse, nel nostro intimo, l’idea di ottenere un quadro definitivo ci appare oggi piuttosto temibile...
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