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George Lucas e la Hollywood Anni Settanta

di Antonio Andreotti

     Per ragioni cinematografiche, culturali, affettive e quant'altro vi venga in mente quello del californiano George Lucas è un nome così celebre che sembra persino non aver bisogno di un'introduzione come questa che state leggendo.
     La sua è stata un'ascesa fulminea nell'Olimpo cinematografico: dopo alcune esperienze amatoriali, prima di compiere 30 anni Lucas gira due film, L'uomo che fuggì dal futuro (THX 1138, 1970) e American graffiti (1973) ben presto diventati due cult movies e il monumento Guerre stellari (Star Wars, 1977), primo capitolo della omonima trilogia.
     Ma come è arrivato Lucas a questo risultato, davvero strabiliante sotto molteplici punti di vista? In quale contesto artistico è maturata la sua poetica? Come si vede domande non da poco, cui proveremo qui a dare una risposta (se non esaustiva, si spera almeno sufficiente).
     Per iniziare a capire da dove derivi "The Force", la "Forza" del progetto lucasiano si deve partire obbligatoriamente da qualche parte. Il punto di partenza per la nostra ricognizione possiamo identificarlo in quella galassia artistica e produttiva rispondente al nome del regista statunitense Roger Corman, gran cerimoniere e padre spirituale di una buona parte di quel "New american cinema" che tanto fece parlare di sé negli anni Settanta, nonché mentore artistico di registi poi diventati molto celebri come ad esempio Francis Ford Coppola, Peter Bogdanovich, il Dennis Hopper di Easy rider (1969), il primo Martin Scorsese e altri nomi ancora.
     Nella storia del cinema americano tra gli anni Sessanta e Settanta Roger Corman è una figura la cui importanza trascende di gran lunga i risultati estetici dei suoi film, peraltro non di rado ragguardevoli. Corman è importantissimo perché è l'esempio vivente e operante in quel periodo dell'autore-produttore, che di propria volontà esce dal circuito dei grandi Studios hollywoodiani per fare film in proprio avvalendosi poi dei "colossi" per la distribuzione delle proprie opere in modo da ottenere una notevole visibilità commerciale, ma al contempo non avere condizionamenti durante la lavorazione.
     Corman è il regista che gira B-movies a bassissimo budget anche in una sola settimana, un artigiano di altissima professionalità presso il quale il mestiere si impara presto, e bene. Corman è colui che mantiene saldo il rapporto coi generi cinematografici in un'epoca, quella degli anni Sessanta, dove la crisi economica dei grandi Studios e le perturbanti folate riformatrici che giungono dalle new waves di tutto il mondo stavano minando dalle fondamenta la struttura portante sulla quale per oltre vent'anni aveva poggiato la Hollywood classica.
     Subito una precisazione. I rapporti tra George Lucas e Roger Corman, fondamentali per tracciare la nascita di un percorso artistico come quello del regista californiano, non sono diretti. Infatti Lucas interseca il proprio destino con quello della factory cormaniana attraverso la fondamentale mediazione di Francis Ford Coppola.
     A metà del 1968 prima di diplomarsi all'università, il 24enne diplomando all'Ucla e attento studioso di antropologia culturale George Lucas usufruisce di una borsa di studio universitaria che lo porta dritto sul set del musical con Fred Astaire e Petula Clark Sulle ali dell'arcobaleno (Finian's rainbow) diretto proprio da Coppola. Lì Lucas, in perfetta sintonia coi dettami cormaniani bene introiettati dal regista italo-americano, impara a fare un po' di tutto. Lucas apprende molto bene, tanto da girare per conto proprio un "film sul film" che per definizione dello stesso Coppola risulta "più bello del mio stesso film". Coppola si entusiasma così tanto del lavoro del giovane californiano che l'anno dopo lo porta con sé anche sul set del suo film successivo, il road movie con James Caan e Shirley Knight Non torno a casa stasera (The rain people, 1969). Per quel film Lucas svolge le mansioni di aiuto scenografo e assistente tuttofare che cura in special modo fotografia e montaggio, e produttore associato con tanto di menzione ufficiale nei credits.
     Eccolo qui lo snodo fondamentale per l'epopea lucasiana, ecco il momento cruciale dove il nostro impara molte di quelle tecniche e competenze che poi saprà sfruttare con la massima abilità negli anni successivi: in primis il mestiere, appreso magari in fretta, come presupposto fondamentale di ogni azione, e lo stretto e fecondo contatto con l'ambiziosissimo Coppola. Il quale per conto suo non cessa per un solo istante di pensare in grande e oltre i limiti contingenti di disponibilità di denaro e quant'altro si frapponga sul suo cammino.
     In uno slogan, "prima farsi le ossa, ma poi pensare sempre in grande".
     Sono questi gli anni decisivi per la formazione del regista; infatti in questo periodo Lucas precisa anche la propria peculiare cifra stilistica: la capacità di rapportarsi in maniera critica coi generi cinematografici, categoria critica alquanto vecchiotta ma che ci è utilissima per comprendere un cinema coltamente popolare come è quello di Lucas; il dovere di mettere in scena uno spettacolo sempre sontuoso e accattivante, valorizzando al massimo quello che c'è a disposizione. A tale proposito è notoria l'accuratezza delle scenografie nelle opere cormaniane, che riusciva a fare miracoli anche con budget di quattro lire. Lucas si ricorderà molto bene di questa lezione anche quando avrà a disposizione straordinarie risorse finanziarie. Si veda in proposito l'importanza che ricoprono le scenografie nell'economia segnica di L'uomo che fuggì dal futuro, il luccichio incessante e magniloquente delle strade in American graffiti e, solo a titolo esemplificativo, la scena del saloon fantascientifico in Guerre stellari.
     E ancora: il fecondo rapporto con la tecnologia, strumento necessario per arricchire quello spettacolo che per Lucas è innanzitutto piacere della visione e del racconto. Un racconto che è sempre svincolato da preoccupazioni di ordine realistico / contenutistico che ad esempio si ritrovano in tanti film dell'epoca come America, dove vai? (Medium cool, 1969) di quel Haskell Wexler così importante nella vita del nostro. Wexler, stimatissimo direttore della fotografia degli anni '50 e operatore di American Graffiti, con la sua influenza intellettuale indirizzerà l'ancora universitario Lucas verso studi più attenti e approfonditi sul disegno e l'animazione. Ecco, l'approccio del regista, anche quando partirà da presupposti in apparenza di questo tipo come nel film appena citato, sarà sempre filtrato e mediato dalla voglia di complicare i piani della narrazione, dalla capacità di rimescolare in maniera incessante archetipi della cultura sia alta che bassa, senza paura di contaminare codici espressivi. Come Corman traeva film horror da opere di Edgar Allan Poe senza alcun timore reverenziale, così Lucas capisce che per esempio gli amatissimi pulp magazines e le antiche saghe nordiche sono tra loro compatibili, facce complementari di una poetica (il postmoderno?) che reputa il saccheggio indiscriminato di stili e codici espressivi l'unica strada percorribile per poter esprimere una propria visione del mondo e del cinema.
     Ma non andiamo troppo avanti, e torniamo a occuparci di ciò che qui si tratta, cioè il contesto dentro al quale nascono le tanto celebri opere del regista di Modesto, California. Fissiamo però bene questi elementi nella memoria, perché torneranno prepotentemente alla ribalta.
     Lo stile (o per meglio dire il saccheggio degli stili altrui) prima di tutto, si diceva. E in questa ottica i film di Lucas appaiono come il prodotto probabilmente più immediato e fruibile di una tendenza assolutamente prioritaria nel cinema americano degli anni Settanta, ossia quel gusto per il metacinema che funge da vero e proprio denominatore comune delle molteplici poetiche estetiche rintracciabili in quel periodo nel cinema americano.
     In altri termini cinema che parla di se stesso, cinema che riflette sulla propria memoria ponendo questi argomenti come principale (e nemmeno tanto dissimulato) oggetto del discorso. Parlando di questa generazione di cineasti statunitensi l'indimenticabile maestro francese François Truffaut, come spesso gli è capitato nel corso della sua vita, ha detto una sacrosanta verità: "Lucas, Spielberg e gli altri della Nuova Hollywood appartengono alla generazione cresciuta con le immagini mentre la mia, invece, è cresciuta con le parole". Immagini invece che parole, il "come" più che il "che cosa". D'altro canto Lucas questa aria l'ha respirata fin da subito, girando "il film sul film" di cui abbiamo parlato prima. Senza scomodare per l'ennesima volta La società dello spettacolo del filosofo francese Guy Debord, ci limitiamo semplicemente a far notare che in una società bombardata dalle immagini, in primis quelle hollywoodiane, era inevitabile che prima o poi il senso stesso dell'immagine diventasse il tema per antonomasia.
     Questo ci riporta ancora al Corman lontano padre putativo di Lucas attraverso la già citata mediazione coppoliana, e al suo cinema artigianale ma lucidissimo dal punto di vista teorico, ben conscio cioè che ciò che poteva esser detto era già stato detto. Da questo presupposto derivano due conseguenze: una formazione culturale di questo tipo, vale a dire tutta basata sulle immagini anziché sulle parole, rimanda innanzitutto a una nozione di spettacolo, anzi di spettacolarità assolutamente centrale nel cinema americano di quegli anni. Nozione che si traduce in una poetica ben precisa come quella della nostalgia di cui tanto si è scritto.
     E si torna ancora al cinema di Roger Corman, come calamitati in un maelstrom del tanto amato (da Corman) Poe, e al suo film Il massacro del giorno di San Valentino (St. Valentine's day massacre, 1966). Con questo che resta un low-budget movie anche se distribuito dalla Fox, semidocumentaristico e ironico resoconto d'epoca mediato da un filtro visivo intelligentemente ispirato all'iconografia del periodo, il regista indica in modo esemplare la via maestra da seguire agli allievi della sua factory nonché a tanti giovani cineasti che si affacciano alla ribalta in quegli anni. Questo gangster-movie figlierà, tanto per dirne uno, l'eccellente Dillinger (1973) di quel John Milius così tanto assimilabile a Lucas nel suo iter artistico, se non nel successo. Oppure America 1929: sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha, 1972) di Martin Scorsese, altro notevolissimo esempio di cinema della nostalgia che denuncia i vizi del presente mostrandone con acume storico le radici del passato, e che si interroga a fondo sulla natura di medium "riproduttivo" tipica del cinema.
     Il tema della nostalgia poi informa tutta l'opera di un altro "cavallo di razza" della scuderia cormaniana, che della coscienza della fine del cinema ha fatto la sua missione artistica; il Peter Bogdanovich che dal cormaniano esordio di Bersagli (Targets, 1968) poi decolla con L'ultimo spettacolo (The last picture show, 1971), Ma papà ti manda sola? (What's up, doc?, 1972) e Paper Moon (1973) rappresenta infatti il massimo tentativo, a livello concettuale, di fare del ripercorrimento critico della storia del cinema americano la propria profonda ragion d'essere. Ed è quello stesso Bogdanovich che nei primi anni Settanta tenterà senza fortuna, in compagnia di Francis Ford Coppola (guarda caso) e William Friedkin, di fondare una propria piccola major denominata "Directors Company". I conti continuano a tornare: indipendenza produttiva, vera o presunta tale, come obiettivo da raggiungere o da mantenere e forte predilezione a svolgere nei film un discorso sul già detto (ma Lucas alla fine fu l'unico della sua generazione a riuscirci veramente.... N.d.C.).
     Insomma, il milieu culturale nel quale Lucas cresce e matura è questo. Ed è di tutta evidenza che la qualità di quel "romance" giovanilista che è American graffiti e il sincretismo culturale di Guerre stellari segnino due momenti importantissimi dal punto di vista teorico.
     Ma nel caso di Lucas bisogna obbligatoriamente spostare l'asse del nostro discorso da un'altra parte. Il regista infatti rompe ogni indugio tagliando di netto ogni mediazione tra metalinguismo e discorso critico sulla società americana, mediazione di certo presente nelle opere dei già citati Bogdanovich e Scorsese, del Sydney Pollack di Come eravamo (The way we were, 1973), o anche del Robert Altman di Gang (Thieves like us, 1973) oppure del Chinatown (1973) dello "straniero" Roman Polanski solo per citare alcuni tra i film più celebri. I presupposti per questa rottura c'erano tutti: il percorso del George Lucas studente di antropologia culturale e appassionato di fumetti, pulp magazines e saghe nordiche non poteva combaciare a quello del gruppo di cineasti appena menzionato.
     E arrivati a questo punto la citazione per l'altro enfant terrible del cinema americano Steven Spielberg è davvero obbligatoria, perché è lui la vera pietra di paragone per capire meglio la poetica di George Lucas. Film come Duel (1971), Lo squalo (Jaws, 1975), Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close encounters of the third kind, 1977), aprono la strada a quella che sarà la natura profonda del discorso lucasiano. Trame avventurose ad alto tasso di suspense svincolate dai nodi della contemporaneità, favole dal marcato spessore metaforico e citazionista (i rimandi al capolavoro melvilliano Moby Dick ne Lo squalo sono esemplari), un'attenzione parossistica ai peculiari valori cinematografici della messa in scena della narrazione, un gusto quasi istintivo per il pastiche. Senza dimenticare, per l'amor di Dio, il profondo spirito cinefilo, che però non si fonda mai su una coscienza della fine e non è mai intrusivo ed esplicitato.
     Se ad esempio in Bogdanovich l'atteggiamento cinefilo era fondativo di tutto il discorso teorico messo in piedi dai suoi film-saggio, in Lucas invece produce dei paradossi piuttosto curiosi. Con tutta la sua fitta trama di citazioni eterogenee e disparate da classici del cinema anche notissimi come Sentieri selvaggi di John Ford, Guerre stellari è uno spettacolo che pur essendo tutto giocato sul riciclo nel 1977 "suonava" comunque come mai visto prima al cinema. L'intelligenza in questo caso è la stessa che Umberto Eco ha riscontrato in Casablanca (1943) di Michael Curtiz: uno stereotipo è l'incarnazione della banalità più ricevuta, 100 stereotipi stipati uno accanto all'altro commuovono e divertono sollecitando le nostre corde più profonde e il nostro inconscio. Messa in un angolo la pensosa seriosità di operazioni come quella bogdanoviciana, Lucas gioca la carta dello spettacolo pieno e ridondante e del gioco che rimanda solo a se stesso. E sappiamo tutti come è andata a finire.
     Infine il grande dato distintivo, lo spartiacque che contraddistingue Spielberg e Lucas da moltissimi loro colleghi: l'amore, fiducioso ma mai sottomesso, per tutto ciò che è tecnologia, nei due vero strumento a disposizione della fantasia e mai "buco nero" che si divora tutto il film con la sua costosissima magniloquenza in fondo fine a se stessa. Senza addentrarci in una prolissa ricognizione di questo argomento, limitiamoci a dire che nel caso del nostro regista il simbolo del suo cinema sembra proprio essere l'astronave Millennium Falcon di Han Solo, ferrovecchio spesso malconcio ma al contempo capace di volare nell'iperspazio seminando ogni volta gli inseguitori. Il cinema del futuro e il futuro del cinema, sembra volerci dire Lucas, è questo; tornare a narrare le favole di una volta condendole con gli aromi di strabilianti effetti speciali, robottini, androidi pelosi e quant'altro. Ma attenzione, in queste favole ci devono essere sempre esseri umani in carne ed ossa, ai quali far vivere avventure che profumino intensamente del cinema del passato così amato. Un'idea di cinema più limpida di così non si può proprio immaginare.
     Insomma, la ricetta è bella e pronta. Imparato il mestiere nella bottega cormaniana, capita la necessità di mettersi in proprio da Francis Ford Coppola senza però fare gli errori del regista italo-americano, precisate al meglio le caratteristiche della propria poetica con Steven Spielberg la vivanda dello chef Lucas è pronta.
     E c'è da scommettere che il nostro chef continuerà a cucinare ancora a lungo, visto che ha dalla sua un asso nella manica mica da ridere. Infatti nei primi anni Ottanta, sbancati i botteghini di tutto il mondo, Lucas e Spielberg si mettono in proprio. Spielberg prima con la AmblinEntertainment, e ora con la acclamatissima DreamWorks SKG, Lucas con la celeberrima LucasFilm della quale altri parleranno diffusamente. Per conto nostro diciamo solo che appare di tutta evidenza come questa fabbrica di soldi per Lucas sia la bottega nella quale perfezionare gli arnesi di lavoro coi quali creare nuove avventure della visione, in fondo vissuta con quell'umiltà artigiana appresa tempo addietro da Corman e Coppola e mai più dimenticata.
     Rapidissima postilla: molti studiosi di cinema hanno scritto più volte che Lucas con Spielberg è il genio che ha aperto la strada alla restaurazione spettacolare e superproduttiva della Hollywood di fine anni Settanta. A voi tutta la libertà di giudizio.


     Apparso su "Guida completa a Star Wars: da Guerre Stellari a La Minaccia Fantasma", Falsopiano, 1999

     Antonio Andreotti, giornalista rodigino, si è laureato all'Università di Padova con una tesi di laurea in Storia e Critica del Cinema.






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