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Voi che pel mondo gite errando...
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di Chiara Marino |
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Alcune riflessioni sulla natura del viaggio nel ciclo starwarsiano
Due sono gli stati dell'esistenza: l'immobilità e il movimento. La prima, per sua natura, si identifica con la calma, con l'eternità sempre uguale a se stessa, con la certezza del fondamento stabile dell'essere-qui-e-non-altrove. Essere immobili significa anche (e si noti l'assonanza) essere immutabili, in una condizione riconducibile sia alla sfera fisica che a quella spirituale: un qualsiasi corpo saldo, che non vacilla, infonde sicurezza; parimenti, un animo fermo ispira considerazione e rispetto.
Eppure, sembra che la condizione positiva per eccellenza, e accettata come tale per eredità genetica, sia quella del moto. È risaputo che, in molte culture, mentre l'immobilità richiama innegabilmente la morte, lo spostamento è identificato con il dinamismo della vita stessa, in quanto vita e movimento implicano una continua trasformazione. Da qui, l'interscambio semico vita/viaggio e l'assimilazione dei due concetti, sovente associati nella letteratura dei popoli (si pensi al viaggio iniziatico, alla discesa agli inferi, alla volontà di scoprire che caratterizza Ulisse — ma gli esempi potrebbero proseguire a lungo).
Il viaggio inteso come spostamento nella dimensione spaziale deve necessariamente ubbidire anche alla coordinata temporale, cosicché il soggetto viaggiante, al termine del percorso intrapreso, subirà una duplice trasformazione: attraverso lo spazio, avrà acquisito conoscenza; attraverso il tempo, sarà maturato e dunque passato da uno stato inconsapevole (riconducibile all'infanzia) ad uno stato cosciente (identificabile con l'età adulta). Il detto "partire è un po' morire", secondo tale ottica della trasformazione, non avrebbe dunque alcuna connotazione negativa, poiché andrebbe inteso come "morire rispetto al nostro stato precedente il viaggio": una volta intrapreso il cammino, noi non saremmo più gli stessi, per poco consapevoli che ne fossimo.
Abbiamo citato sopra alcuni viaggi esemplari, entrati nel patrimonio culturale di ogni essere umano. Ricordiamo a questo punto, con maggior precisione, che la discesa nell'oltretomba è anche viaggio iniziatico, il viaggio iniziatico per eccellenza, poiché mette a confronto/scontro l'universo della certezza, della razionalità, rappresentato dal Vivente, e il mondo dell'irrazionale —della non-certezza— costituito dalle Ombre. L'eroe supera il confronto e da questo esce rinnovato: il suo iter ha compiuto un ulteriore passo in avanti. Accadendo ciò in tutte le mitologie, non poteva non accadere in Star Wars, che a buon diritto può dirsi la summa di ogni racconto mitico.
L'epopea lucasiana, nelle sue strutture profonde, si articola su due poli antitetici: il movimento turbinoso e sconvolgente di un universo in guerra (1) e l'atarassica contemplazione dell'ordine jedi. E in Star Wars si viaggia molto, continuamente, diremmo.
Sia la trilogia fondatrice, sia EpI iniziano con un viaggio, precisamente una missione diplomatica che non va a buon fine. E ancora: Luke deve recarsi ad Alderaan, ma al posto del pianeta distrutto trova la Death Star; Han e Leia raggiungono Cloud City sperando di trovarvi un porto sicuro, ma lì covano l'insidia e il tradimento. Ancora Luke —e questo è un esempio estremo— discende nelle profondità dell'albero fatato e incontra, al termine di uno scontro onirico, il Padre archetipico e Se Stesso.
Stando agli esempi sopra riportati, è lecito dedurre che nella Saga il viaggio implica sempre una connotazione negativa. In un certo senso è vero, se con "negativo" non intendiamo in questo contesto un giudizio morale. Non è che il viaggiare sia un errore scelto consapevolmente dal personaggio, e quindi un atto di autonoma tracotanza che l'autore condanna: non è infatti l'eroe che sceglie di spostarsi, bensì egli è scelto dalle circostanze, dal destino che guida i suoi passi verso questo o quel mondo. Neppure Luke intraprende il viaggio a Bespin in totale libertà, come in un primo momento potrebbe sembrare, dal momento che è la Necessità —l'Ananke— a spingerlo a lasciare Dagobah. Il viaggio nella Saga è perciò strumentale ad un contesto narrativo che è in continuo ed incessante divenire: è vero che inizialmente il percorso conduce l'eroe in luoghi inaspettati, oppure a confronti tragici; ma è vero altresì che, al termine dell'itinerario, ogni personaggio avrà acquisito maggiore statura morale e maggiore coscienza di sé e del mondo che lo circonda.
Ambivalenza del viaggio starwarsiano perché sempre, in Lucas, bene e male non sono due principi distinti, ma assolutamente osmotici: l'uno sconfina e, soprattutto, porta all'altro.
Le mete - Richiami
Soffermiamoci per un istante sul nome Death Star. Tradotto in italiano —con gusto discutibile— "Morte Nera", questo toponimo rimanda ad uno dei loci della letteratura classica, cioè il già citato oltretomba, il Regno delle Ombre.
Generalmente è l'eroe che sceglie di compiere il viaggio in "quelle tenebrose arene", perché desidera incontrare un caro estinto, o perché deve apprendere una verità ultima. In A New Hope, invece, l'incontro con la dimensione della morte avviene in modo assolutamente fortuito. Il Millennium Falcon, come sappiamo, esce dallo strano "campo di asteroidi" (in realtà i detriti del distrutto pianeta Alderaan, un pianeta morto: una specie di immane Porta dell'Oltretomba) e non può non sottrarsi al raggio traente del tetro satellite che si staglia lontano, oltre le vetrate di prora.
Tutti gli eroi "positivi" che viaggiano sulla nave corelliana, una volta varcata la soglia della Death Star, sono chiamati ad offrire una prova: coraggio (Luke e Han); destrezza (Obi-Wan); efficienza (i droidi). Essi devono compiere un'opera di salvataggio: liberare Leia che lì è tenuta prigioniera, e questo loro cimento è assimilabile al ruolo salvifico della madre di Lemminkäinen, che deve strappare il figlio al regno di Tuoni (2), o anche al tentativo di Orfeo. Fortunatamente, la fanciulla da liberare non è una titubante Euridice, e —ad un certo punto— ci si chiede se sia proprio Leia colei che deve essere salvata, o non piuttosto i suoi stessi paladini, la cui capacità organizzativa —rasentando l'improvvisazione— mette tutti in serio pericolo. Meravigliosa, ariostesca ironia di George Lucas, che riesce a mantenere un tono leggero e svagato anche in quell'inferno militaresco (e militarista) che è la Death Star.
Cloud City. Un nome leggiadro che immediatamente riconduce a Gli Uccelli di Aristofane. Soltanto che la Città delle Nuvole dell'epopea starwarsiana non è l'utopica Nubicuculia, ma una trappola, una sorta di abbagliante buco nero che attira i destini di ogni figura del dramma. La città è, si può dire, un punto franco nell'ambito dell'Impero: vi abitano molte etnìe, e la vita trascorre in modo presumibilmente agiato grazie ai proventi delle miniere di gas tibanna. È una bella città, dalle smaglianti architetture a guglia, ma l'atmosfera che vi si respira è splendidamente claustrofobica. Sorta di Castello di Atlante, lì i personaggi si rincorrono, si incontrano, si scontrano in un crescendo onirico che conduce al momento cruciale dell'intera Saga, cioè il primo confronto tra Luke e Vader. Cloud City è dunque un palcoscenico (3) dove gli attanti tessono una fittissima rete di relazioni mai del tutto risolte: Han, che si fidava dell'amico d'un tempo, cade vittima del più vile dei tradimenti, senza essere in grado di sapere che Lando, di lì a poco, si riscatterà; Leia perde l'uomo che ama, e non sa se, un giorno, le sarà concesso rivederlo; Luke è protagonista di una clamorosa scena d'agnizione, che getta lo scompiglio non soltanto nell'animo suo, ma anche in quello di Vader, che da questo istante comincia a umanizzarsi, subendo quelle sottilissime, quasi impercettibili trasformazioni psicologiche che faranno di lui il protagonista assoluto dell'epopea.
Quanto avviene a Cloud City è dunque una discesa nel profondo di ogni dramatis persona, e costituisce un importante momento narrativo, che imprime all'azione nuovi e inattesi sviluppi.
Nottetempo e sotto mentite spoglie, un re si mette in cammino assieme ad alcuni dei suoi uomini per raggiungere un luogo chiamato 'Endor — modesto villaggio nei pressi del monte Efraim. La strada che essi devono percorrere non è priva di pericoli, poiché passa lungo l'accampamento dei nemici filistei. Il piccolo gruppo, tuttavia, elude le sentinelle e riesce a raggiungere indenne il villaggio.
L'episodio si trova nell'Antico Testamento (Samuele I,28) e riguarda un momento della vita di Saul, il quale ad 'Endor intende evocare, tramite una maga, l'ombra del profeta Samuele. 'Endor è un luogo magico, dunque, ove risiede colei che è tramite tra il mondo dei vivi e quello dei defunti.
In Return si assiste ad un episodio simile: la navetta sottratta all'Impero, che viaggia sotto la copertura di un codice trafugato, passa indenne —complice anche il veggente Darth Vader— attraverso la flotta nemica e raggiunge la luna verdeggiante.
Entrambi gli episodi rappresentano —inscenano— un viaggio verso l'ignoto. Saul vuole raggiungere il luogo ove spera di ottenere una divinazione sul suo futuro di re; i protagonisti della Saga, anch'essi in una situazione difficile, sperano di imprimere la svolta decisiva alla guerra una volta raggiunta la meta. I nessi si arrestano qui, tuttavia: nell'Endor lucasiano non c'è nulla di ultraterreno, né di sinistro, e si può affermare che nessun luogo è così propizio alla felice risoluzione degli eventi come la luna boscosa.
Il viaggio —l'ultimo dei viaggi della Saga— trova quindi in Return il suo porto definitivo. Tutti i nodi vengono risolti (ammesso che si consideri la letteratura apocrifa post-starwarsiana attendibile e legittima) e il Mito può dirsi concluso. La nuova trilogia, opera della maturità dell'autore, ci dirà se la visione lucasiana del viaggio avrà subìto delle trasformazioni.
Note:
(1) "Guerra" si oppone semanticamente a "pace". Si può allora creare la seguente proporzione: guerra : movimento = pace : immobilità.
(2) Siamo nell'ambito della mitologia finnica. Cfr. la piacevole edizione divulgativa di G. AGRATI e M.L. MAGINI, Kalévala, Oscar Mondadori, 1988
(3) Osserviamo quanto la camera di congelamento somigli ad uno spazio scenico: sullo sfondo, dei pannelli bluastri davanti ai quali si erge un piano rialzato, al quale conduce una breve scalinata. Tutta la scena appare circolare (o semicircolare) e chiaramente delimitata da un proscenio, limite invalicabile tra finzione e realtà.
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